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Volere bene
Una
lingua non è solo una sfilza di parole infilzate a sorte a un filo,
ma è lo specchio primogenito dell'anima di una persona e di un
popolo. Non dico che sia l'unica e ultima maniera per conoscere un
popolo, ma di sicuro è la prima e fondamentale. Ogni popolo possiede
un suo modo particolare e originale o originario di presentarsi e
questo modo va guardato e studiato con passione, come strada
privilegiata per la conoscenza. Uno di questi modi originali
riguarda una dalle parole, e un concetto, dei più usati e abusati:
quello dell'amore. Un amore adoperato in tutte le salse e pasticciato
in tutte le maniere, perché "amore è amore e non brodo di
verze".
Ebbene
un friulano genuino adopererà la parola "amore" e i suoi
derivati, come "amare" eccetera, meno che può o anche mai,
perché noi friulani, nella nostra concretezza e prosaicità, non
diciamo "ti amo", ma "ti voglio bene", andando
subito alla sostanza della questione. E il "volere bene" è
l'espressione giusta per parlare di questo motore universale. Ogni
anno, giovedì santo, sento un brivido lungo la schiena quando leggo
di Gesù che, "dopo aver voluto bene ai suoi che erano in questo
mondo, volle bene loro fino all'estremo" (Gn 13, 1). O quando,
sempre nel commiato, dice: "Questo è il mio comandamento: che
vi vogliate bene l'un l'altro, come io ho voluto bene a voi" (Gn
15, 12).
Abbiamo
appena celebrato la giornata della festa della mamma, una festa che
non è liturgica e messa nel messale, ma entrata appieno nella nostra
tradizione e, spero, nel nostro cuore. Parlando a una madre, a un
padre, non si può non augurargli di volere bene ai suoi bambini con
lo stesso benvolere, anche se in scala ridotta e in dimensione umana
e creaturale, che Dio ha per noi. Un benvolere che ci dà senza
pentimenti e senza ripensamenti e senza ricatti. Un benvolere che
butta sempre, come una fontana, anche se la gente va li solo quando
ha sete e non si sogna neanche di ringraziarla e di chiudere l'acqua.
Un benvolere che non parte dalla nostra degnità ma dalla sua
liberalità. Perciò non si asciuga e non si riduce quando noi
tradiamo col nostro comportamento questa benevolenza, ma se mai
cresce. Perché che il benvolere tende a crescere e non a calare, ad
arrivare al massimo e non al minimo, a sacrificarsi e non a
sacrificare.
Volere
bene è forse istintivo. Anche le bestie, nella loro struttura
psicosomatica, danno tutto per i loro piccoli, giungendo a un eroismo
a cui gli uomini a arrivano di rado. Credo che qualunque genitore
voglia bene, anche al più selvaggio e scapestrato. Anzi ci sono
genitori selvaggi che stravedono per i loro bambini e poveri mai loro
quelli che li guardano di traverso o si permettono una critica o una
malegrazia. Il punto è proprio questo: volere il bene dei figli e
non volersi bene adoperando i figli per scaricare o colmare le
proprie frustrazioni e delusioni. Il bene dei figli non è far fare
loro ciò che non sono riuscito a fare io, anche se non gli piace o
non sono portati, ma cercare di capire il progetto che Dio ha messo
dentro di loro, nella loro individualità, e tirare fuori (educâ =
educere, tirare fuori) la meraviglia che Dio ha pensato e voluta,
come Michelangelo sapeva tirare fuori un miracolo da un blocco di
marmo. Il bene dei figli, e di ogni persona, è un bene vero, reale e
non virtuale. E questa verità comprende anche i difetti e gli
aspetti meno simpatici. Che vanno guardati sempre con affetto ma con
realismo e senza sconti. E', quindi, un bene globale, armonico, che
non lascia fuori niente e non discrimina o elimina ma completa.
Sull'esempio di Dio. Non è un caso che Dio si sia rivelato
soprattutto come padre e madre.