sabato 24 maggio 2014

21 Volere bene

21 Volere bene
Una lingua non è solo una sfilza di parole infilzate a sorte a un filo, ma è lo specchio primogenito dell'anima di una persona e di un popolo. Non dico che sia l'unica e ultima maniera per conoscere un popolo, ma di sicuro è la prima e fondamentale. Ogni popolo possiede un suo modo particolare e originale o originario di presentarsi e questo modo va guardato e studiato con passione, come strada privilegiata per la conoscenza. Uno di questi modi originali riguarda una dalle parole, e un concetto, dei più usati e abusati: quello dell'amore. Un amore adoperato in tutte le salse e pasticciato in tutte le maniere, perché "amore è amore e non brodo di verze".
Ebbene un friulano genuino adopererà la parola "amore" e i suoi derivati, come "amare" eccetera, meno che può o anche mai, perché noi friulani, nella nostra concretezza e prosaicità, non diciamo "ti amo", ma "ti voglio bene", andando subito alla sostanza della questione. E il "volere bene" è l'espressione giusta per parlare di questo motore universale. Ogni anno, giovedì santo, sento un brivido lungo la schiena quando leggo di Gesù che, "dopo aver voluto bene ai suoi che erano in questo mondo, volle bene loro fino all'estremo" (Gn 13, 1). O quando, sempre nel commiato, dice: "Questo è il mio comandamento: che vi vogliate bene l'un l'altro, come io ho voluto bene a voi" (Gn 15, 12).
Abbiamo appena celebrato la giornata della festa della mamma, una festa che non è liturgica e messa nel messale, ma entrata appieno nella nostra tradizione e, spero, nel nostro cuore. Parlando a una madre, a un padre, non si può non augurargli di volere bene ai suoi bambini con lo stesso benvolere, anche se in scala ridotta e in dimensione umana e creaturale, che Dio ha per noi. Un benvolere che ci dà senza pentimenti e senza ripensamenti e senza ricatti. Un benvolere che butta sempre, come una fontana, anche se la gente va li solo quando ha sete e non si sogna neanche di ringraziarla e di chiudere l'acqua. Un benvolere che non parte dalla nostra degnità ma dalla sua liberalità. Perciò non si asciuga e non si riduce quando noi tradiamo col nostro comportamento questa benevolenza, ma se mai cresce. Perché che il benvolere tende a crescere e non a calare, ad arrivare al massimo e non al minimo, a sacrificarsi e non a sacrificare.
Volere bene è forse istintivo. Anche le bestie, nella loro struttura psicosomatica, danno tutto per i loro piccoli, giungendo a un eroismo a cui gli uomini a arrivano di rado. Credo che qualunque genitore voglia bene, anche al più selvaggio e scapestrato. Anzi ci sono genitori selvaggi che stravedono per i loro bambini e poveri mai loro quelli che li guardano di traverso o si permettono una critica o una malegrazia. Il punto è proprio questo: volere il bene dei figli e non volersi bene adoperando i figli per scaricare o colmare le proprie frustrazioni e delusioni. Il bene dei figli non è far fare loro ciò che non sono riuscito a fare io, anche se non gli piace o non sono portati, ma cercare di capire il progetto che Dio ha messo dentro di loro, nella loro individualità, e tirare fuori (educâ = educere, tirare fuori) la meraviglia che Dio ha pensato e voluta, come Michelangelo sapeva tirare fuori un miracolo da un blocco di marmo. Il bene dei figli, e di ogni persona, è un bene vero, reale e non virtuale. E questa verità comprende anche i difetti e gli aspetti meno simpatici. Che vanno guardati sempre con affetto ma con realismo e senza sconti. E', quindi, un bene globale, armonico, che non lascia fuori niente e non discrimina o elimina ma completa. Sull'esempio di Dio. Non è un caso che Dio si sia rivelato soprattutto come padre e madre.

sabato 17 maggio 2014

20 Una famiglia al buio

20 Una famiglia al buio
Neanche la gioia di Pasqua e neanche la luce discreta e benedetta del cero non riescono a distrarre il mio pensiero e ad alleggerire il mio cuore. In questi giorni il mio pensiero va spesso a una famiglia di parrocchiani virtuali ma anche virtuosi che da tanti anni onorano la nostra chiesa. Parlo di Romeo e di Idute, tolmezzini trapiantati a Colloredo di Prato. Una storia, la loro, esemplare, che da quarantatré anni mettono in pratica giorno per giorno, croce per croce, la promessa di fedeltà “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”. Tanto esemplare, in questi tempi di precarietà familiare e di amori instabili, che non interessa a nessun mezzo di informazione e comunicazione, sempre pronti a tuffarsi a pesce nei tradimenti e nella violenza.
Idute si è ammalata di una forma di sclerosi subito dopo che si erano sposati. Ed è riuscita ad allevare due figli che adesso sono grandi. Anzi il figlio li ha fatti diventare nonni due volte. Romeo aveva studiato a Tolmezzo dai Salesiani ed era molto portato per le belle lettere (ha una mano splendida nel buttare giù poesie in friulano), ma ha dovuto, come tanti, trovarsi un mestiere. Per dieci anni ha avuto un officina a Mestre e si è fatto anche un po' di fortuna che gli ha permesso, quando la moglie andava peggiorando, di comprarsi una casetta e di dare una mano nella comunità Piergiorgio. Poi la moglie non ha potuto più camminare e da quindici anni lui la trascina ovunque. In qualunque stagione e con qualunque tempo. Possiede una passione esagerata per la fotografia. Ne ha fatte a migliaia. Ebbene, davanti a un bel monumento, a una rarità, a un rovo di rose c'è sempre Idute, che per lui è il più bel monumento e rarità e rosa.
Il passare degli anni, il carico sempre più pesante, la preoccupazione sempre più marcata lo hanno segnato anche lui, che va soggetto a momenti di depressione e di stanchezza. Adesso ringraziando Iddio, sembrava che fosse riuscito a uscire dal guscio. E' stato con la moglie a Grado e tornava a passeggiare per il paese. L’ultima volta lo ho visto il 30 di aprile di domenica. C'era un tempo da lupi e si erano bagnati nel tratto, per loro eterno, fra l' auto e la porta della chiesa. Come sempre, anche questa volta mi hanno portato dei fiori, un mazzo di papaveri, che abbiamo messo sull' altare.
Prima di lasciarci, mi sono permesso di ringraziare questi amici così fedeli. “Non posso fare a meno di invitarvi a riflettere sul fatto che Romeo e Idute sono arrivati da Colloredo con questo tempo, Loro che avevano tutte le ragioni per stare a casa, mentre tanta gente, che avrebbe mille ragioni per esserci, non c'è”. Ci siamo dati appuntamento alla prossima e sperando in un tempo più decente. Ma non so quando sarà la prossima. Perché, nel martedì mi ha telefonato la figlia, giunta su da Roma, e mi ha raccontato ciò che non avrei mai voluto sentire. Suo padre è arrivato casa da messa ha fatto scendere la moglie, come sempre. Ma stentava e non era naturale nei movimenti. Ha detto che andava su un attimo in camera. Vedendo che non scendeva a pranzo, Idute lo ha chiamato forte ma senza risposta. Non potendo muoversi, ha fatto venire il figlio, che è salito con un brutto sospetto. Romeo era disteso sul pavimento, con gli occhi spalancati, e biascicava da non riuscire a capire nulla. I medici, arrivati immediatamente hanno constatato che aveva avuta una emorragia cerebrale e non potevano promettere niente. E' ancora in terapia intensiva, tutto intubato e con gli occhi rivolti verso il soffitto. La moglie, in carrozzina, guarda attraverso la finestra senza scambiare parola. Voglio sperare che anche Dio guardi. Nella gusta direzione.

sabato 10 maggio 2014

19 Memoria positiva

19 Memoria positiva
Per una coincidenza fortunata, questa mia riflessione settimanale esce il sei di maggio, mentre il Friuli intero si fermerà a rivivere i trent'anni di agonia, di morte e di resurrezione dal terremoto. Trent'anni sono più di una generazione e dunque un fatto così calamitoso e fragoroso rischia di essere spazzato via dall' accelerazione esasperata ed esasperante di questi anni forsennati. Tanti nostri fratelli, vittime e protagonisti, non sono più qui a raccontarla. Non mi riferisco tanto a quei mille e passa che l'angelo della morte ha intrappolato sotto le macerie, ma a tante persone che non sono riusciti a vedere e a godere la ricostruzione. Tanti altri sono troppo giovani per farsi una idea della tragedia che ci ha colpiti e dello squarcio aperto nel cuore del nostro Friuli. Guardando i paesi di oggi, così ben fatti, così nuovi, così ricchi, è impossibile rendersi conto che un popolo ha rischiato veramente di essere inghiottito. Sarà bene che i padri e i nonni raccontino loro, come ci consiglia con sapienza il libro del Deuteronomio, ciò che è successo e come si è riusciti ad affrontare e a superare una conseguenza di quella fatta. Anche per prendere spirito per poter affrontare con la stessa fede e forza le sfide con cui ogni generazione è chiamata a confrontarsi.
La memoria del terremoto e della ricostruzione è una memoria positiva, soprattutto se rapportata ad altre calamità capitate lungo l'Italia in questa seconda metà di secolo. Non è il caso di incensarsi troppo, perché non tutto ha avuto lo stesso esito fortunato, soprattutto per quel che riguarda l'edilizia pubblica, comprese certe chiese che resteranno a eterna memoria di una scelta poco intelligente e rispettosa. Ma di avere la contentezza di chi è arrivato alla fine del suo solco e guarda la tanta strada fatta. Significa che siamo un popolo sano, che ha tante risorse e qualità, anche se ci si ricorda di tirarle fuori solo nei momenti critici, ma questo è il destino dei mortali. quando don Checo diceva che "un popolo non muore per una disgrazia o per miseria, però può morire per troppa abbondanza", ci dava un grande conforto e un grande ammonimento,
Il segreto, se si può parlare di segreto e non di cervello, è stato quello della coralità dei responsabili e protagonisti. A tutti i livelli, Ognuno nella sua specifica competenza, ma tutti per un unico fine, al di sopra delle parrocchie ideologiche e partitiche. Una lezione che non può andare fuori moda, perché da ciò dipende la salvezza o la rovina: se tutti si lavora per un bene condiviso o se ognuno lavora contro l'altro. In questa coralità non sono saltate, ma si sono integrate le svariate componenti del tessuto sociale, Partendo dal basso, dalla gente, e non dall'alto. Perché accanto al sindaco e al deputato e al vescovo e al prete, della regione e del mondo del volontariato, il grande protagonista è stato il popolo friulano, la nostra gente.
Mi piacerebbe mettere in luce un altro aspetto, non meno esemplare e prezioso: la coralità, la globalità, l'armonia dei progetti e degli interventi. Una firma per l'università del Friuli, memoria vivente di tanto flagello, era sentita importante come un sacco di cemento o un mattone. Perché il Friuli doveva tornare rinascere intero e vitale e non una accozzaglia di case senza anima per un popolo senza speranza. Per questo ha fatto tanto fragore, anche fuori di qui, il documento dei preti: "Prima le fabbriche, poi le case e col tempo, se Dio vorrà, anche le chiese". documento che qualche superiore diocesano non ha avuto nessun fastidio a dargli la paternità, anche se era nato in una canonica carnica.
Ripetiamo allora, con convinzione e commozione, ciò che abbiamo cantato trent'anni indietro, con un altro spirito, nella maestà della basilica madre di Aquileia: "è il Signore il nostro aiuto, lui che ha fatto cieli e terra".

sabato 3 maggio 2014

18 La migliore propaganda

18 La migliore propaganda
Stando alle statistiche, la religione cattolica è la più grande dalle religioni organizzate. Si può dire che non c'è parte di mondo in cui non si trovi una presenza cattolica, magari a livello di semenza o di reliquia, e soprattutto la religione cattolica è conosciuta a livello planetario, anche in grazia della potenza dei mezzi di comunicazione. Se si pensa al gruppetto di cristiani che si radunavano nelle case per spezzare il pane al miliardo e passa di battezzati di oggi, si deve ammettere che se n'è fatta di strada e dunque si dovrebbe essere più che contenti. Eppure c'è qualcosa che non quadra e lo sentiamo anche noi. O almeno lo sentono le anime più riflessive, che non si accontentano dei numeri ma amano andare alla sostanza della questione. Lo sentono anche i responsabili della Chiesa, che cercano in ogni sistema di tenere vicino il gruppo variegato delle pecore poco ubbidienti e fanno salti mortali per ubbidire al comando di Cristo di andare fino all'ultimo angolo del mondo.
Cosa dobbiamo fare, per salvare questa cristianità che perde colpi da ogni parte, al punto che si parla di post-cristianesimo o addirittura di minoranza non sempre rispettata, come tutte le minoranze? Dobbiamo moltiplicare i documenti e i pronunciamenti, per fare conoscere che noi siamo nella verità? Dobbiamo rafforzare la struttura e l'organizzazione, in modo di arrivare per ogni nocca del corpo mondiale? Dobbiamo buttarci sulla grande comunicazione, oggi che, se non si comunica e non si è sul mediatico, non si esiste? Penso che, in una realtà complessa e complicata come la nostra, non si può scartare nessuna strada e sprecare nessuna briscola. Però mi sembra più giusto, anche se può sembrare ingenuo e banale, andare a vedere come la religione si è diffusa nei primi tempi, quando rischiava ogni momento di sparire per il fatto che era una semino piccolo circondato da sospetto e di ostilità. Come facevano quella volta, senza organizzazioni, strutture, visibilità, mezzi materiali, riconoscimenti e garanzie pubbliche?
Troviamo la risposta in quel libretto d'oro che si intitola "Gli atti degli apostoli". ci narra che i nostri padri e avi nella fede "erano saldi nell'ascoltare la dottrina degli apostoli, nel dividere e nel pregare" (atto 2, 42). Ma la cosa più scandalosa era che mettevano tutto in comunione; vendevano quello che avevano e ciò che ricavano dalla loro cosa lo dividevano fra tutti secondo ciò che serviva a ognuno" (44-45). Ma ciò che mi rincuora di più è sentire che avevano un "cuore contento e schietto" e che "la gente li vedeva di buon occhio". Anche facendo un po' di tare, tocca dire che non si poteva non restare esterrefatti davanti a questa gente che non aveva templi o vesti o cerimonie differenti dagli altri, ma era la loro vita ordinaria che era una rivoluzione. E la gente li guardava, li ammirava e rimaneva interdetta, perché troppo grande era il contrasto fra la loro vita e quella dei cristiani. Soprattutto pensavano che una religione che rivoluzionava loro la vita in quella maniera, che li sosteneva nelle contrarietà, che dava loro la forza di affrontare umiliazioni, discriminazione e perfino la morte per amore dal Signore doveva essere vera. Come non potevano restare indifferenti davanti alle parole che Pietro ha inciso sulla porta "bella" del tempio: "Non ho né oro né argento. Ti do ciò che possiedo: in nome di Gesù Cristo il Nazareno, cammina!" (3, 6). Una Chiesa che non ha né oro né argento ma una fede grande come le montagne non ti fa solo camminare, ma volare. Forse merita fatto un confronto, un esame di coscienza, un po' di bilancio. Se senza soldi e mezzi e conoscenze hanno conquistato forse il mondo, come mai adesso non solo non riusciamo a finire la loro opera ma stiamo retrocedendo?
Rimane il fatto che non è la nostra dottrina ma la nostra vita la miglior propaganda, anzi l'unica.