sabato 12 febbraio 2011

10 Troppi aggettivi vanificano la sostanza


10 Troppi aggettivi vanificano la sostanza x



Le “informazioni ecclesiastiche”mi hanno avvertito degli appuntamenti della vita diocesana. Il 2 febbraio è stata la giornata dedicata alla vita consacrata, cioè alle monache; l’11 febbraio, la Madonna di Lourdes e il Concordato poi c’è la giornata per i malati; in Quaresima si deve insistere sull’identità cristiana della famiglia friulana.
A dire la verità, questi sussidi mi aiutano solo ad arrabbiarmi. Prima di tutto perché mi tolgono la ricerca originaria e primaria del mistero liturgico, che viene utilizzata e banalizzata. E poi perché mi danno l’idea di un assalto del mondo cattolico per mettere etichette ovunque, col rischio che i troppi aggettivi tolgano tutta la vigoria del sostantivo. Perché la vera forza dovrebbe averla il sostantivo e non l’aggettivo, che segue. Ma forse è meglio passare al concreto.
Quando mi parlano di vita “consacrata”, riferita al religioso, mi fanno nascere il dubbio che possa esistere anche una vita non consacrata e che gli sposati valgano di meno. Così quando mi organizzano la giornata del malato, mi fanno dubitare che un malato non cattolico valga di meno e che il soffrire, già problematico e santo di per se stesso, abbia bisogno di una qualificazione confessionale.
Questo vizio di cattolicizzare tutto si trova anche negli oraganici diocesani e sovradiocesani. Così abbiamo medici cattolici, infermieri cattolici, universitari cattolici, maestri cattolici, professori cattolici, imprenditori cattolici, scuole cattoliche, volontari cattolici, esploratori cattolici, ospedali cattolici, stampa cattolica, senza contare le diramazioni all’interno di ogni movimento. Ma i cattolici hanno fatto di più e di peggio: hanno anche realizzato un partito cattolico e addirittura la banca cattolica. Con il risultato che hanno ottenuto un paese dei meno cattolici al mondo, almeno nelle scelte di fondo. Questo significa che tutte queste etichette o nascondono il vuoto, e dunque sono inutili, o servono solo al cristiano in piccole mafie, naturalmente “cattoliche”, e questo è pericoloso.
Smettiamola quindi di essere nominalisti, col gusto per gli aggettivi e le speculazioni, per ritornare al piacere per la sostanza, meno infiocchettata, ma più genuina.
E iniziamo a farlo con il linguaggio, che è sempre il riflesso di un pensiero. Finiamola allora di parlare di vita consacrata e parliamo solo di vita, laddove ogni espressione e diversificazione è sacra. Lasciamo stare anche la sofferenza cattolica, per rispettare e onorare il mistero della sofferenza, che ha sempre collegamento al sacrificio di Cristo. Che non si è mai sognato di darsi qualifiche (era maestro, non maestro cattolico) essendo lui puro sostantivo, anzi la Sostanza del Padre.
Così non parliamo dei cristiani “adulti”. O sono cristiani o non sono nulla. Finiamola anche con la ”Sacra Famiglia”. Basta “famiglia” , dal momento che la famiglia è sempre un sacramento di Cristo, in forma più o meno coerente e palese. Così lasciamo perdere il “Santo Padre”, dal momento che la paternità è già santa se è autentica. Se non è autentica non basta un aggettivo per santificarla.
Per la mia piccola comunità di Basagliapenta (e ognuno lo faccia per la sua) , chiedo che abbia sempre meno aggettivi e più sostantivi, che sia sempre meno sacrale e più santa, nel senso di genuina, che trovi la sua dignità a livello naturale prima che sacrale o confessionale. Perché la natura viene prima della grazia e sostiene la grazia. Lo ha detto uno che aveva una pancia grande, una testa fine e un cuore splendido: san Tommaso. Dunque bramo e prego di avere solo un paese e una chiesa. Senza aggettivi che invece di qualificare rischiano di squalificare.

sabato 5 febbraio 2011

09 Madonna Candelora: festa di tutte le età


09 Madonna Candelora: festa di tutte le età della vita.

Come tutte chiese del mondo, anche noi dobbiamo celebrare la festa della Madonna Candelora, a coronamento e completamento del mistero del Natale.
Mentre cantavo il vangelo, così splendido che narra del regalo e della sacralità della vita di Cristo, come rovina e resurrezione e simbolo di contraddizione, di Maria trafitta con la spada nel cuore, quel cuore che come un’ arca racchiudeva tutti questi misteri, dal vecchio Simeone che chiedeva il permesso di andarsene dopo aver visto la salvezza, di Anna, vedova per tutta una vita trascorsa in chiesa, mi sentivo proprio come l’asino di Buridano: non sapeva da che cosa iniziare. Ci sono momenti nella liturgia in cui è meglio tacere. E fare un raffronto interiore, un’attualizzazione fra il mistero della liturgia e il mistero della vita.
Così per un attimo ho dimenticato la maestà di Gerusalemme e del suo tempio, e mi sono fermato e umiliato della mia comunità così povera, l’ultima del comune di Basiliano, che si ricorda di noi solo per la vaccinazione dei cani, con le tasse e le schede elettorali. Ma anche noi, nella nostra povertà, abbiamo tutti gli ingredienti del vangelo di Luca.
Abbiamo i bambini, non tanti a dire il vero, che affrontano il viaggio lungo e ingarbugliato della vita partendo dal tempio, dal battesimo, dalla religione cristiana. Abbiamo anche qualche genitore che prima li porta, quando sono piccoli, e poi li accompagna, quando crescono in età e in birbanteria. Abbiamo madri col cuore sanguinante e padri carichi di preoccupazioni. Abbiamo qualche Simeone e un enorme quantità di vedove, tutte al di sopra degli ottanta anni d’età, che hanno dovuto farsi forza e affrontare la vedovanza con la pensioncina che lo stato passa loro, con qualche pettegolezzo riguardo i fatti del paese e con la messa mattutina, come Anna nel tempio.
Nel tempio della nostra comunità abbiamo tutte le età, come nel vangelo della presentazione. Ognuna con le sue soddisfazioni e ognuna con i suoi problemi. L’importante è che ognuna faccia il suo dono al Signore: i bambini regalano la loro innocenza e la giornata che li attende, i grandi donano le soddisfazioni e le preoccupazioni della famiglia e del lavoro, gli anziani offrono il lavoro di una vita, inoltre le preghiere e i dolori fisici, la loro esperienza e la loro sapienza. Gli anziani che spesso si trovano in un mondo così confusionario parlano come san Simeone: “Signore, lascia andare a riposare anche me”.
Benedetto il grande tempio di Basagliapenta, dove ogni persona cerca d’essere una candela, difatti la candela riveste mille significati, uno più bello dell’altro. Si consuma dando vita agli altri: è bella da nuova ma più utile e cara man mano che si consuma. È fabbricata con la cera delle api, che la producono bottinando i fiori più profumati e freschi,a differenza delle mosche, condannate a vivere nello sporco e nel letame.
La preghiera che ripeto ogni anno in questa giornata è di poter avere una comunità di api che si nutrano con le cose positive della vita, non di mosche rabbiose e sporche, che possano essere vitali da quando aprono gli occhi fino a che avranno stoppino e cera; che la nostra comunità possa godere dei doni specifici e preziosi di tutte le età della vita. Perché la Candelora è la festa della famiglia, dei bambini, dei genitori e dei nonni. Non si può banalizzarla tramutandola nella festa delle monache, come si fa a Udine.
Queste vanno ricordate, lodate e ringraziate in un’altra occasione.

venerdì 4 febbraio 2011

08 Natale: poteva non venire a trovarci?


08 Natale: poteva non venire a trovarci?

Con questi miei ragionamenti, o vaneggiamenti, senza alcun ordine liturgico o logica, ma solo con l’intento di farmi luce col lume della Parola, sono giunto al mistero del Natale. Dei rapporti fra Dio e l’uomo, di un’offerta fatta e non accettata, di un estremo bisogno che Dio venga a portare la salvezza e di un istinto non meno forte di chiudere la porta.
Questa conflittualità la descrive molto bene il vangelo del Verbo, durante la messa Grande (Gv 1-18). Un contrasto fra luce e buio troppo netto per non pensare che sia forzato, come una tesi da dimostrare. La tesi di esaltare Dio e il suo amore, e questo non mi dispiace, e l’antitesi di incolpare l’uomo e la sua cattiveria cronica, e questo non lo accetto. Se l’uomo è sporco, cieco, ingrato, stupido, carogna, chi l’ha fatto così? Non poteva farlo meglio? I teologi dicono che l’uomo è libero. Ma se è libero solamente di continuare ad assassinarsi, che libertà ha? E questa libertà, è un regalo o una condanna?
Per questo non accetto più certe prediche natalizie riguardo a un Dio sfortunato che scende e trova tutto chiuso e certe invettive contro l’uomo che si serra col chiavistello, per non lasciare entrare Dio, la sua luce, la sua grazia. E quindi grandi pianti su Dio, povero, invece di piangere sull’uomo, ancora più povero.
Non si onora il padre e la madre parlando male del loro figlio, perché non è un onore per i genitori avere un figlio stupido e ubriacone o vagabondo. Casomai avranno il dubbio di aver fatto bene a concepirlo. Il male che c’è nel mondo non rappresenta il fallimento dell’uomo, o non solo il suo, ma innanzitutto il fallimento di Dio. Ricordiamocelo, prima di sparare scemenze a raffica.
Ho riflettuto molto su questo mistero del Natale e ho concluso che Dio non ha fatto proprio nulla di speciale venendo nel mondo. Ha semplicemente fatto ciò che ogni genitore assennato compie dinnanzi a un figlio che patisce e ha necessità.
Cristo ha trovato chiusa la porta della locanda. Ma quanta gente, anche e soprattutto al giorno d’oggi, trova tutte le porte sprangate? I suoi familiari non lo hanno accettato. Ma quanti genitori, dopo essersi lambiccati una vita intera, si trovano su una strada, senza un affetto, senza gratitudine, senza nulla? Cosa dire di quei genitori che addirittura rischiano di essere uccisi dai propri figli?
Per questo dico che Cristo, se è il padre, non ha compiuto nulla di straordinario, venendo a vedere di noi. Lo fa qualunque madre friulana, o italiana, anche se non frequenta la messa, nei confronti di un figlio malato, drogato, disordinato, solo. E non si reca a casa del figlio per ricevere complimenti, ma per portargli il conforto e l’aiuto della sua presenza. E quando aprendo la porta scorge tutto quel disordine, non inizia a inveire contro il proprio figlio ma si arma di scopa, straccio e acqua e inizia a pulire. Poi accende il fuoco, e prepara del cibo caldo e si siede accanto al figlio per servirlo. Perché è suo figlio, lo ha partorito lei e si sente in qualche modo responsabile delle sue pene.
Se Dio è buono, se il mondo è casa sua, non c’è nulla di cui meravigliarsi nel fatto che sia venuto a vivere con noi. Ci sarebbe stato da meravigliarsi che non l’avesse fatto.

07 Ogni età è buona per partorire


07 Ogni età è buona per partorire


Si sta parlando parecchio a riguardo di quelle donne che vogliono avere un figlio a sessant’anni. Le chiamano le “madri-nonne”.
Non voglio entrare in merito a questo garbuglio. Dico solo che Elisabetta, moglie di Zaccaria e cugina della Madonna, era una “mamma-nonna”. Come sua zia Sant’Anna e altre sante che la Scrittura ricorda e loda.
La notizia che Elisabetta era in cinta la porta l’angelo Gabriele. Dice a Maria: “Ecco che Elisabetta, tua parente, è rimasta anche lei incinta di un bambino, sebbene sia anziana, e che tutti la credevano oramai sterile è già al sesto mese.”
Mi immagino questa donnina o donnona, tutta spasimata per la nuova vita che porta in grembo, rossa di contentezza e imbarazzata dalla vergogna, perché, come dice il proverbio popolare, ogni frutto è buono nella sua stagione, verità ribadita da quel grande prontuario di sapienza che è il Qoelet: “per tutto c’è il suo momento, un tempo per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per nascere e un tempo per morire.”
Solo che io mi pongo una domanda: “Esiste una stagione della vita che è sterile? Si può vivere senza partorire?
La natura può porre un confine alla generazione fisica, ma credo che in ogni stagione della vita una persona ha diritto e il dovere del concepimento e del partorire. Non possono esistere stagioni sterili. Altrimenti si è morti prima di morire. Altrimenti viene a mancare, nel mondo, il regalo prezioso, collaudato degli anziani. Una vita tutta gioventù, primavera, solarità, vivacità, non solo non è possibile ma sarebbe banale e povera. Il giovane è giovane perché c’è gente più anziana di lui. La bellezza della primavera, con i suoi limiti, si può godere, solo perché esiste anche la stagione dell’autunno e dell’inverno, con i suoi vantaggi. Questo dobbiamo dirlo forte.
Mi innervosiscono certe campagne, anche cattoliche, certe “scommesse sui giovani” dove sembra che la briscola l’abbiano solo loro e mancando i giovani muoia tutto. I giovani non sono tutto e soprattutto non vanno staccati dai vecchi. Per completezza della vita.
Le mie vecchine, di “durante tutta la settimana”, mi fanno ogni giorno il regalo della loro presenza e della loro preghiera, non sono meno importanti, dal punto di vista pastorale, dei bambini e dei giovani. Vanno trattate con cura, affetto e attenzione. Non solo perché hanno più bisogno di una parola, ma per il fatto che hanno più tempo e disponibilità per offrire la loro sapienza e aggiungerei, il loro ottimismo. Ci sono vecchi bavosi, come ci sono bambini maleducati e giovani ignoranti, ma ci sono donne e uomini, anche che hanno superato l’ottantina d’età, con una carica vitale, un’ironia e una finezza che i giovani non possiedono. Un capitale che non possiamo permetterci di sprecare.
Naturalmente ciò che vale per persone in età, vale anche per le culture, i paesi, per il patrimonio architettonico, iconografico, musicale, letterario, per tutte le cose “vecchie”, che vecchie non sono, e che una moda pseudo-giovane spesso mette da parte. Là, dove il danno più grande lo ha subito la cultura giovane, condannata alla sterilità. Sono i dispetti di Dio, lui che chiude prima dell’ora il grembo dei giovani e fa fiorire il grembo degli anziani. Per dimostrare non solo che “non c’è nulla che Dio non possa fare” ma che sterilità e vita non vanno d’accordo in nessun tempo e in nessuna stagione.

06 Benedetta!


06 Benedetta!


Luca ha voluto dare alla storia più grande del mondo una cornice colma di religiosità, di umanità, di solennità e anche di fantasia. Non solo ci presenta l’angelo, anzi l’arcangelo Gabriele, che entra in casa di Maria, ma ci narra anche ciò che si sono detti, comprese le obbiezioni e le risposte. Poi l’accettazione e il commiato.
Sarebbe da stupidi fermarsi alla parte ”materiale” del fatto e chiedersi com’era fatto, come faceva a parlare e lei come riusciva a comprenderlo e a rispondergli. Stiamo attenti invece a ciò che dice, che è più importante.
Gabriele è un angelo non solamente bello, ma anche complimentoso. Difatti poche ragazze hanno avuto la fortuna di sentirsi salutare e complimentare in maniera così bella. La saluta, le dice di non avere paura, la chiama”piena di grazia” e poi soggiunge a piena bocca, una parola straordinaria “Benedetta!”
Cosa pagherei, io prete, se i miei fedeli, parlando di me, dicessero: “Benedetto!” si può avere un titolo più grande nella vita?
“Benedetto!” è un titolo che ti colma il cuore di contentezza e gli occhi di luce. Ogni volta che lo sento è sempre la prima volta, perché non si può abituarsi a un saluto del genere. Soprattutto è un titolo che non si può dare così, in gran quantità. Va pesato, misurato, perché dà un indizio completo della persona. Una persona ”benedetta” è buona, umana, umile, disponibile e comprensiva. Si può andare a disturbare a qualunque ora e a lei si può dire qualsiasi cosa. È veramente un regalo splendido che Dio fa a una famiglia o a un paese o all’umanità.
Senza andare a cercare nella grande storia la lista delle persone”benedette”, sono sicuro che anche qui da noi ce ne sono di queste persone. Lo sostengo per una questione di principio e per esperienza personale.
Il giorno in cui scompare la semente dei benedetti è come quando si spegne un fuoco o la luce o le stelle non splendono più o la terra non genera più vita. È come quando una fontana si prosciuga. Perché i “benedetti” fanno luce, riscaldano il cuore, sono un punto di riferimento nella notte della vita, fanno germogliare il terreno della nostra anima e spengono la nostra arsura. Non possono sparire. Allo stesso modo non possono esistere a migliaia o a milioni. Altrimenti che complimento sarebbe?
Ma c’è gente “benedetta” in giro per il nostro Friuli. Basta andare a ricercarla. Naturalmente bisogna guardare bene e in basso, perché si tratta di gente discreta come le viole, che si nascondono fra gli sterpi.
Ognuna faccia questo giro spirituale e troverà madri e padri e nonni e figli e giovani e anziani che veramente sono “benedetti”. Gente che sacrifica la vita con un malato, per uno di casa buttato malamente. Gente che, dopo il lavoro, trova il tempo per aprire la porta della propria casa anche a chi è solo, persone che continuano a fare il proprio dovere nell’ospedale, nelle scuole, nelle fabbriche, nell’ ufficio, in campagna, nei paesi più remoti, anche se più di una volta sorge il dubbio di essere stupidi e di sentirsi derisi dai più “furbi”. Gente che nel “villaggio globale”, dove la carta d’identità è la banalità, continua a rimanere schietta, genuina, profonda, essenziale, misurata. Gente che lavora “in perdita”, per pura gratuità e fede. Persone che muoiono in credito e non in debito. Benedetti!

05 Nell’agenda di Dio


05 Nell’agenda di Dio

Dio ha inviato l’arcangelo Gabriele in una città della Galilea chiamata Nazarerth, da una ragazza, promessa sposa a un uomo di nomo di nome Giuseppe della famiglia di Davide: la ragazza si chiamava Maria.
Assorbiamo queste parole a una a una per scoprire l’opera misteriosa di Dio nella storia.
Ogni salvezza parte da Dio e quando lo vuole lui, l’unico che conosce il segreto del “tempo”. E lui opera mediante le creature, la via più naturale, per onorarle rendendole partecipi a un piano di salvezza. L’angelo è stato inviato: non può andarci da solo, stando che la legittimazione del viaggio è il messaggio che deve consegnare. E così anche Gabriele parte per la grande trasferta. Dove andrà il messo di Dio e che strada intraprenderà?
Se Dio è il più trascendente e oltre ogni pensiero, o immaginazione, posso scegliere anche un’immagine “materiale”, cosciente che si tratta di una mia fantasia.
Quali nomi sono scritti nell’agenda di Dio, completi di indirizzo e numero telefonico? Posso dedurli dal percorso che ha compiuto il postino Gabriele.
Fra tante persone nel mondo di allora, o anche solo in Palestina, in cima a tutti non c’era il numero di telefono del primo sacerdote e nemmeno quello di Erode o del governatore o del presidente della banca di Gerusalemme. Non era nemmeno Gerusalemme, ma Nazareth, un paese da cui non poteva nascere nulla di buono. E a Nazareth, in cima alla lista c’era una ragazza di nome Maria, promessa sposa a Giuseppe. Sicuramente una casa priva di, telefono o segreteria telefonica, perché nessuno si sarebbe sprecato a chiamarli. Ma Dio non necessita di telefono; preferisce parlare direttamente al cuore.
Giungendo all’odierna situazione, friulana, quali sono i primi nomi, annotati sull’agenda di Dio? Sicuramente non è quello del vescovo di Udine e della curia e nemmeno quelli del sindaco o del prefetto. Come non sarà quello del parroco di Basagliapenta. Perché Dio non guarda timbri o targhe o istituzioni, ma il cuore, ci saranno anche quelli, ma non fra i primi. Almeno non per diritto.
Senza voler rubare a Dio il segreto della croce, credo di conoscere più di qualche persona che sicuramente è registrata fra i primi nell’agenda di Dio. Persone che vivono le beatitudini, forse senza nemmeno conoscerle; gente che ha una fede granitica nonostante tutti i terremoti della vita. Persone che danno sempre senza mai chiedere nulla, convinte di avere solo doveri e nessun diritto; gente che non si dimentica di nessuno, anche se nessuno si ricorda di loro; persone che danno e lavorano in piena gratuità, coscienti della “nullità” apparente del suo dare e del suo combattere; povere fontane a cui tutti vanno a dissetarsi e tanti non hanno nemmeno l’educazione di chiudere il rubinetto dopo aver bevuto.
Chissà da chi è volato Gabriele in questi giorni? Spero in tanti paesetti della Carnia o della Slavia, in tante borgate del Friuli dove non hanno udito il rintocco di una campana. Non basta celebrare il Natale per assicurarsi la presenza dell’angelo. Anzi credo che sia andato dove non c’erano né luci né speranza, là dove la vita ha assunto la tinta grigia della morte. Se veramente Dio è alternativo e non mafioso.
A proposito di agende, ogni anno ne iniziamo una; che nomi abbiamo annotato per primi? Quanti poveri e piccoli abbiamo segnato, per essere in sintonia con l’agenda di Dio?

04 L’importante sono gli angeli, non le ali


04 L’importante sono gli angeli, non le ali

Puntuale è arrivato il Missus, una tradizione aquileiese che fa parte del nostro DNA religioso e che non possiamo lasciare cadere nel dimenticatoio.
Mi hanno raccontato amici preti che in un paese lo hanno ripristinato dopo quindici anni. La gente ha ripreso a cantarlo sotto voce e la terza volta lo cantava a squarciagola tanto che sembrava la chiesa crollasse. C’era un popolo intero che riportava a galla la coscienza della sua memoria religiosa.
Il Missus ha il vantaggio di non avere bisogno di coreografia. È bello di per sé. Non necessita nemmeno del prete. È sufficiente un buon cantore.
Io ho preso l’usanza, intanto del Missus, di volare con la fantasia. Cerco di vivere il racconto di Luca come fosse un film. Peraltro anche la struttura è simile a uno sceneggiato. Comincio naturalmente, all’inizio, con l’angelo. Missus est angelus Gabriel a Deo…..
Ma esistono gli angeli?
Stando alla tradizione biblica e cristiana debbo dire che esistono. Addirittura sono divisi in schiere e in cori. Degli arcangeli conosco anche i nomi: Michele, quello della guerra finale, Raffaele, quello di Tobia, e Gabriele, quello della Madonna.
È chiaro che questa precisazione su un mondo così misterioso ti fa venire un sospetto. Che abbiano voluto dare anche a Dio, al Re dei re, tutto quell’armamentario che anche il re più macaco di questo mondo si può permettere. Con la differenza che i servi di lassù dovrebbero essere più efficienti, se non altro per il vantaggio che sono solo pura intelligenza e niente mascelle, esattamente il contrario di questi sulla Terra.
Perciò preferisco lasciare intatto il mistero in merito al mondo di lassù e cerco gli angeli qua giù. Perché l’importante non è che gli angeli abbiano le ali, ma che all’uomo giunga il messaggio, la voce, la presenza, il conforto di Dio. Gli angeli, di fatto, sono i suoi postini. Cosa c’è scritto in questa “lettera” di Gabriele? “sii contenta… il Signore è con te…benedetta… Dio può tutto”.
Io riesco a vedere gli angeli anche lungo le strade di questo Friuli che crede così poco negli angeli. Ogni volta che si apre una porta, che giunge una parola di conforto, che qualcuno ti aiuta a vivere e a sperare, arriva l’angelo di Dio. Un bambino che va a fare visita a un anziano, un figlio che si ricorda dei genitori, un giovane che aiuta in paese, qualcuno che si interessa di te e ti aiuta a vivere. Anche un cane o un gatto o un canarino può essere un angelo per chi è solo, anche un fiore, un buon libro, la radio e la televisione. E non ho considerato gli angeli naturali, di professione, che sono il padre e la madre e i nonni e il marito e la moglie.
Chiediamo che Dio ci mandi sempre il suo angelo ma facciamo un passo oltre: cerchiamo di diventare noi stessi angeli.
Lo so che Dio potrebbe cavarsela benissimo da solo, a fare tutto. Ma è intelligente: vuole che lo aiutiamo. E il sapere, che io, povero verme della terra, sono un angelo di Dio, mi provoca un gran prurito nell’anima, come se stessi sbattendo le ali.
Infatti l’angelo fa un grande regalo ma anche lo riceve. Fa contenti gli altri ma anche lui se ne va via più leggero.

03 Non rattoppi, ma cose nuove e alternative


03 Non rattoppi, ma cose nuove e alternative

Quella voce che grida nel deserto, non mi esce dal cervello. E più ci penso e più la trovo un’assurdità.
Ma che può fare un uomo nell’immensità di un deserto? Non aveva nessun altro posto per impiantare il suo baracchino? E perché la gente avrebbe dovuto abbandonare tutto per andare ad ascoltare un selvaggio? Che senso ha tutto questo, messo in bocca al più grande profeta e posto come inizio del vangelo di Marco?
Io non sono un esperto biblista, nel senso di uno che se ne intende, che ne capisce. Peraltro chi può “capire” la parola di Dio? E poi la religione è un capire o un sentire? È più importante la spiegazione o la riflessione o il canto o il silenzio o la commozione o la contemplazione?
Se la parola di Dio è come l’acqua del pozzo, perché non andare sempre più in profondità o da un’altra parte? E così, spostando la punteggiatura, mi sono saltati fuori due bei significati e soprattutto attuali.
Voce di uno che grida: nel deserto preparate la strada del Signore.
Il deserto è un luogo di morte, abbandonato, alternativo al consorzio umano. Dicendo di realizzare la strada nel deserto, Dio lancia una sfida. Dove non passa nessuno, io costruisco la strada principale. Per dire che non c’è morte che lui non può vincere od ostacolo che non può superare. Anzi, più la cosa è difficoltosa e più ci prende gusto. Come un bambino.
Ma il significato è anche un altro: Dio non perde tempo a mettere rattoppi in cose vecchie. Vuole cose alternative, non rappezzate. La nostra religione non è alternativa. Che vadano a messa o non ci vadano, non si vede una grande differenza nella vita. È questa la tragedia: che la messa non cambia nulla, non che la gente non ci vada.
In più, realizzando la strada dove non la costruiscono gli altri, Dio dimostra di sbeffeggiare ogni mafia e compromesso e forza umana. Non fa “fifty-fifty” per mandare avanti la baracca.
Credo che quelli che hanno costruito le pievi di Guart o di San Pietro o San Martino di Valle o di Rivalpo in Carnia o Sant’Antonio in Venzone abbiano realizzato, forse senza rendersene conto del tutto, ciò che intendeva il profeta. Realizzare qualcosa al di fuori del sentiero degli uomini per obbligare gli uomini a prendere un’altra strada.
Se la Chiesa è alternativa al mondo, saranno pochi e poveri quelli che andranno in chiesa. Dunque bastano chiesette piccole. Chi ha detto che cresciuto il paese cresce anche la religione, per cui si deve di colpo ampliare la chiesa o alzare il campanile?
Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore.
È il significato consueto e forse quello più giusto.
La grandezza del fatto non dipende dal numero degli spettatori ma dall’evento stesso. La partita non diventa più importante della messa perché ci vanno più persone a seguirla. Allo stesso modo una messa non diventa più grande se la celebriamo in un campo di calcio. Anzi diventa più piccola. Perché la voce, quella autentica e rivoluzionaria, grida nel deserto.
Non so nemmeno se quella strada famosa di Isaia l’hanno realizzata o no. La salvezza inizia con una voce. Perché anche con una voce solitaria che grida, il deserto ha finito d’essere deserto. L’importante è che non taccia quella voce. Se dopo giunge anche la processione della gente, meglio ancora.

02 Troppe voci rischiano di soffocare la Voce


02 Troppe voci rischiano di soffocare la Voce

Le campane di Basagliapenta suonano ogni giorno, regolarmente. E, regolarmente, nessuno le sente suonare, tranne quelli che hanno l’abbonamento mattutino. Nei giorni scorsi ho avuto l’influenza e le campane sono rimaste mute. Tanto silenziose che anche chi non frequentava la messa si è accorto che il prete era rimasto a letto.
Da ciò ho tratto due conclusioni. La prima, consolante, è che la presenza del mondo religioso è più grande del numero delle persone presenti alla messa.
La seconda è che certe cose sono condannate a diventare significative quando vengono a mancare. Come la madre, il fuoco, la luce, la salute. O anche il prete o una chiesa chiusa.
Non sarebbe meglio accorgersene prima, quando si è ancora in tempo e si potrebbe godere di questi regali? Sarebbe meglio sì, ma non sarebbe in linea con la realtà della vita, fatta per lo più di errori aggiustati alla meno peggio che di cose indovinate.
Meditando accanto al fuoco dello spolert, ho letto il vangelo, laddove raccontava di Giovanni riportando le parole del grande profeta Isaia: “Voce di uno che grida nel deserto: Spianate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.”
E ho iniziato a ragionare riguardo questa voce, solitaria, che grida nel deserto. In una domenica a Udine, ci sono oltre cento messe. In giro per il Friuli ogni prete legge due o anche tre volte questo vangelo. Inoltre ci sono i bollettini, i catechisti, i gruppi di preghiera e del vangelo, le prediche alla radio e alla televisione, i libri, i fumetti, i sistemi audiovisivi come le videocassette, che il papa ha definito “un mezzo insostituibile per la diffusione del vangelo” (forse chi le vende si è fatta un’idea leggermente diversa!) Insomma questa voce solitaria viene moltiplicata per mille, per centomila, per milioni di volte.
Come mai allora si fa tanta fatica a giungere al cuore della gente e a svegliarla?
Io avrei la mia idea. Non è che le persone siano digiune della parola. L’hanno ascoltata tante, troppe volte e pronunciata in maniera ripetitiva, scontata, moscia, poco convincente, come se anche quelli che la proclamavano avessero perso la sensazione della straordinarietà di questa voce solitaria in un luogo solitario.
Direi piuttosto che è pasciuta, stanca, come ingolfata. Tornare a insistere ora è solo caricarsi di nervoso e stancare ancora di più.
La medicina contro questa apatia viene chiamata “nuova evangelizzazione”. Un assalto globale e generale del bene sul male, della verità sulla bugia, della luce sul buio. E con un armamentario imponente di uomini, di soldi e di strutture.
Ma se la gente è ingolfata, e confusa da tante voci e parole, non sarebbe forse il caso di fare questa evangelizzazione, sacrosanta, in una forma veramente nuova? Come? Tacendo, pregando, pensando, contemplando. Ma soprattutto tacendo.
Così la gente, disintossicata, ritornerà ad avere nostalgia e necessità di parole e si preparerà di nuovo ad ascoltare, con piacere e con voglia. E la voce farà il suo effetto, ovvero tramutare in vita un luogo di morte come il deserto.
Una voce nel deserto è un segno di vita. Un altoparlante o un disco nel deserto danno l’idea che siano arrivate le giostre. Mille voci confusionarie e nella confusione tramutano tutto in un deserto.
Questi i miei ragionamenti in una domenica d’Avvento. Il medico dice che, con la febbre, devo anche, aver vaneggiato.