mercoledì 26 settembre 2012

39 Nell'osteria del mondo

39 Nell'osteria del mondo
I due discepoli di Emmaus, col loro camminare stanco e avvilito, ci hanno regalato una dalle pagine più illuminanti dal vangelo. perché sono lo specchio della realtà di ogni tempo. In ogni tempo e su ogni strada c'è gente che va avanti più per scommessa che per voglia, carica di problemi e col cuore che piange.
E Cristo si è accompagnato con loro come un uguale che palesa una realtà e ne nasconde una più profonda. Difatti loro non erano in grado di riconoscerlo. Ma anche ognuno di noi è un mistero impenetrabile e dobbiamo accettare di fermarci alla facciata, alla voce dell' uomo, senza potere andare a vedere la realtà completa della sua anima.
Dio non si vede ma si sente l’effetto della sua presenza. Come il vento, lo “spirito”, che non si vede ma si vedeno muoversi le foglie.
La presenza di Cristo è una presenza che scalda, a livello di cuore non di speculazione. Difatti essi sentono che gli arde il cuore, perché Dio è amore, non ragionamento.
Un amore che anche spiega. Ma partendo dalle Scritture, che dimostrano l’operare di Dio nella storia. Un operare che rinasce alla vita solo passando attraverso la morte e alla gloria solo passando attraverso la passione. Una strada che la nuda razionalità, a pieno diritto, non accetta. Per questo abbiamo bisogno anche della fede e dalla Scrittura per “spiegare” la storia.
Ma di questo pezzo mi piace soffermarmi a due particolari. Il forestiero chiede: “Che discorso facevate fra di voi?”. già! Di cosa parlano i preti quando si trovano, i politici, i lavoratori, gli studenti, le madri e i padri di famiglia? Difatti si parla di ciò che ci sta più a cuore. E a noi friulani cosa ci sta più a cuore, oltre che parlare di calcio, di soldi, di roba, di dolenzie?
I discepoli erano afflitti perché si erano illusi. Per non avere delusioni, non si dovrebbe farsi illusioni. Ma si può vivere senza una illusione, un sogno, una pazzia? E quando uno alla volta crollano i nostri castelli di carta, possiamo rinunciare a tornare a imbastire, magari imprecando, un nuovo castello?
I due amici, senza nome, per rappresentare tutti i nomi, forzano il Signore a entrare con loro perché si stava avvicinando la notte. Una notte e un buio che non possono essere solo astronomici.
Lo forzano a entrare nella osteria. Ma non c'è sufficientemente gente nell'osteria? Non sono il vino e la compagnia che tolgono ogni paura e malinconia?
Intanto nessun bicchiere di vino o bicchierino di grappa hanno mai sciolto nessun problema. L’alcol non riesce a scaldarti il cuore e a darti pace. E tanto meno la compagnia occasionale e la folla. Più grande è l'osteria e più ci si sente da soli. Basta andare su di un marciapiede di metropoli o uno stadio o una discoteca. L’uomo ha bisogno di rapporti personâi, a tu per tu, non massificanti. La televisione può darti l' illusione di una presenza in mancanza di meglio, come un fiore di plastica a un tacagno o disperato che non riesce ad acquistare uno vero.
Cristo entra nell'osteria del mondo perché li è più forte l' illusione della compagnia e dunque più tremenda la sensazione della solitudine. Nessuna confusione o droga o bevanda può sostituire la presenza discreta del “forestiero” che si siede con noi, in un angolo, a spezzare insieme con noi il pane e della solitudine che riempie di tenebre la nostra anima e la nostra vita. Tutte le osterie del mondo messe assieme non arrivano a scaldarti il cuore se non hai vicino anche Cristo, compagno discreto e insostituibile dell' uomo.

mercoledì 19 settembre 2012

38 Requiem per un disperato

38 Requiem per un disperato
Il 20 di giugno del 1995 è morto a Parigi a 83 anni lo scrittore Emile M. Cioran. non era di Basagliapenta e neanche friulano, ma era della grande parrocchia dei disperati e parlava il linguaggio universale del dolore. Difronte a uno che soffre, il cristiano deve tirarsi giù il cappello come davanti a un Cristo, perché sono parenti, anche se non si conoscono. La croce non è mai lontana dal Signore.
Mi ha regalato i suoi libri un mio amico medico, da leggere solo un piccolo pezzo alla volta, come le gocce di un veleno. E Cioran è un veleno, iniziando dai titoli: Squartamento, La tentazione di esistere, Il destino doloroso, Lacrime e santi, L’inconveniente di essere nati eccetera. Pagine di una lucidità tremenda e di una tragicità immensa, che ti fanno diventare pensieroso e pietoso. Dal momento che nessuno riesce a esprimere proprio tutta la sua disperazione, quanta ne aveva avuta il povero Cioran! La allegria, dice Oscar Wilde, può essere falsa, ma la maschera del dolore è sempre autentica.
La vita di Cioran è stata segnata fin dall'infanzia. Era amico del becchino del suo paese, che gli regalava i teschi dei morti perchè giocasse. La sua tragedia è iniziata sui venti anni, con l’insonnia. Per anni ha girovagato per le strade desolate di Sibiu, in Romania, con una tensione nervosa al limite delle forze umane. Il sonno ti permette di spartire la vita in fatica e riposo e di covare un'illusione per il domani. Non dormendo mai, devi guardare la realtà continuamente, senza soste e senza illusioni. questa lucidità, trasformata in superbia (“io sono l’unico che può spiare la vita senza essere spiato”), gli ha dato la carica di vivere, ma in estrema solitudine e ripulso degli uomini.
Neanche sua madre non ha saputo o è arrivata a capirlo. “Se sapevo ciò, abortivo!” gli ha risposto. “Dal momento che sono un incidente, mi ritengo libero nei confronti del mondo e della storia” le ha risposto.
L’ironia del destino ha voluto che morisse senza accorgersi a causa dell' Alzheimer, lui che aveva scritto: “Si può sopportare la vita solo perché si ha sempre la possibilità di farla finita”.
Cioran fa parte di una grande famiglia: Giobbe, Qoelet, Leopardi e tanti altri, conosciuti e sconosciuti, che hanno avuto il destino di guardare in faccia l’aspetto più brutto della realtà: la sua inutilità, le sue illusioni, la sua crudeltà, il suo accanirsi sui più sfortunati. Ha spogliato senza pietà la religione, la filosofia e la storia, palesando le tante falsità. In questo è moderno, perché mai come oggi la vita si presenta come peso e fatica.
“E la fede dove la mettiamo?” dirà il solito cattolico benpensante e pasciuto. La fede non toglie la tragicità della vita e può legarsi benissimo o prendere il gancio proprio nella assurdità di tante esistenze. Il discorso della fede rimane aperto e non viene dalla razionalità ma dalla compassione di Dio.
Personalmente, davanti da un ottimisimo di facciata e ad una allegria volgare e patetica, propagandata soprattutto da una televisione che fa pena nel suo sforzo patetico di fare ridere, preferisco la lucidità disperata di Cioran, tanto più dignitosa. Una lacrima vera è sempre preferibile a una risata falsa.
Spero che il Signore colmi di luce questa anima tormentata che ha dovuto andare avanti nel buio come le talpe sotto terra. Chi ha più diritto di lui e di quelli come lui, che Dio ci manda per richiamarci alla serietà e alla problematicità dell'esistenza? Poche volte la preghiera cristiana ha avuto un significato così denso: “Requiem, riposa, riposa finalmente in pace!”.

mercoledì 12 settembre 2012

37 Prima regola pastorale: umanità

37 Prima regola pastorale: umanità
Sono dodici anni che i miei passi hanno abbandonata la pieve di San Martino di Rivalpo e Valle e in tutto questo tempo, in verità volato, ho cercato di non tradire, se non ogni tanto col pensiero e nel cuore della notte, la nuova famiglia della mia anima.
Per una ragione di concretezza e di onestà.
Non si può volere bene a due donne nè tenere in piedi due famiglie e il cuore dell' uomo, compreso quello del prete che lo ha a tessera, non può essere diviso. Per questo non capisco quei preti che risparmiano l’affetto per i paesani per quando se ne saranno andati via e così tradiscono il loro nuovo paese e mettono in croce il successore.
Ma il caso ha voluto che tornassi a mettere piede, per qualche ora, dove ero giunto prete di nido, a 27 anni, e ho trascorso i quattordici anni della mia maturità. E quando ho visto da lontano quelle case che conoscevo sasso per sasso e quella chiesa dove ho sfogata la mia anima nel bene e nel male, Ho compresa la verità profonda del proverbio: il primo amore non ha fine. Perché si è aperto nel mio cuore come una ferita e il sangue mi gocciolava, ma era una ferita dolce, come le ferite dell'amore.
In un attiamo sono tornato in sintonia con quel tempo fondamentale della mia vita di prete dove che, usanza Gesù a Nicodema, sono tornato a nascere, abbandonati struttura, erudizione, programmi preconfezionati, ogni scienza e forza clericale, per farmi ultimo con gli ultimi e spartire le loro ricchezze e i loro limiti, che non erano “secundum ordinem Melchisedek”. per capire e essere capito, per crescere e per aiutare a crescere. E si può iniziare questa avventura solo se si entra a contatto di anime, in piena gratuità e disponibilità.
Incontrando i pochi che ho trovato, dopo essere stato a salutare i tanti che hanno traslocato nel luogo del riposo eterno, ho compresa la legge della relatività del tempo. Difatti a colpo si è squarciato il velo della separazione ed è stato come se fossimo stati sempre insieme. perché l’anima ritornava a godere e a patire. Ho sempre pensato che l’eternità deve essere una condanna se manca l’amore. Se ci si stanca un’ora, non è da rabbrividire a pensare di affrontare i secoli dei secoli? Ma l’amore è vita e contemporaneità, come il passato è morte e sepoltura. Se ci si vuole bene, si cancella il passato e si è in eterna presenza. Per questo dicono che gli amanti sono in Paradiso.
Di tanto tempo passato insieme, la gente non ricorda più nè lavori nè dottrine nè teologie. Tutto questo viene rimosso per primo ed è da stupidi investire in energie. La gente si ricorda che abbiamo pregato insieme e soprattutto che siamo stati bene assieme.
“Quanto ci manca!” e “Che bei momenti che abbiamo vissuto insieme” sono state le espressioni più usuali. E presentandomi il loro bambino, gli dicevano: “Questo qui è il signor santolo che mi ha cresciuto, di cui ti parlo spesso”. Che si può pretendere di più?
Nel raccomandarli ancora una volta a Dio, l’unico pastore e il vero prete di un paese, torno sulla mia idea fissa o tarlo: la prima regola pastorale è l'umanità. anzi l’unica regola. Intesa nell'esempio dell'incarnazione del Signore. Parafrasando l’imitazione di Cristo, dirò che, se hai umanità, non è importante se non hai altre qualità. Se non hai umanità, anche le tue più belle qualità non valgono niente.

martedì 4 settembre 2012

36 Don Arturo Blasutto, vittima della Chiesa


36 Don Arturo Blasutto, vittima della Chiesa
 
Se non avessi letto che don Arturo Blasutto di Monteaperta di Taipana è morto il 17 di settembre, non avrei neanche saputo che era esistito, e non solo io. Eppure la vicenda mortale di questo servo di Dio è di una drammaticità scandalosa, come scandaloso è il vangelo.
Dei suoi 81 anni (era nato il 23 di ottobre del ’13), ne ha trascorsi 18 nella cura delle anime, con una fine dolorosa, e il resto a casa.
A Oseacco aveva trascorso gli anni tormentati della guerra vivendo giorno per giorno il mistero della incarnazione anche culturale e servendo tutti quelli che venivano a chiedere aiuto, guardando al bisogno e non la militanza ideologica. Questo lo consiglia il vangelo, ma i patrioti e gli imboscati non gli l'hanno perdonato e lo hanno fatto passare come titino.
Nel ’46 è iniziata la seconda e ultima tappa, a Liessa. La sua colpa? Adoperare nel ministero la lingua della gente. Da li accuse, indagini, pettegolezzi, campagne diffamatorie sulla stampa locale e statale. Il vescovo Nogara gli fece firmare professioni di fede italiana per tenere buoni i cattivi, che non trovano in lui motivi di condanna. Il brigadiere di Clodig dice: “Se don Blasutto parlasse in italiano, non avrebbe nessuna accusa”.
In barba alla coerenza e all' innocenza di questo prete, la curia di Udine gli toglie la parrocchia e don Arturo va a cercare un boccone di pane di affetto a casa sua, restituendo il sussidio del vescovo. Ha 42 anni, più giovane della pluralità dei preti che oggi sono in servizio. Prima dice messa in chiesa ma senza campane; poi gli viene inibita anche la chiesa. Un confino umiliante lungo quaranta anni.
Il calvario di don Blasutto è a livello di Stepinac, Mindzenty e Beran. Un vicario patisce forse meno di un cardinale? Con la differenza che i cardinali sono stati condannati dai regimi atei e ritenuti martiri, mentre Blasutto è stato condannato da un regime democristiano e della Chiesa e dunque senza indulgenza.
Quelli che non partivano dal vangelo, come i fascisti, i democristiani, gli italianissimi, i partigiani, i gladiatori e anche gli spioni, hanno avuto tutti il loro premio. Se erano preti, hanno avuto la croce di cavaliere e magari anche il colletto rosso di monsignore o canonico.
Lui invece, che era sicuramente più in linea col vangelo, è stato condannato senza processo e senza appello.
Nogara ha fatto il peggio, Togliendogli la parrocchia. Ma neanche i vescovi seguenti non sono stati da meno. Difatti non gli hanno dato nè un paese nè un titolo, se non altro per onorare i suoi di casa, che lo assistevano. Nel ’56, con Zaffonato, Blasutto  aveva 43 anni. Nel ’73, con Battisti, ne aveva 60. In piena stagione. Riguardo a un titolo ecclesiastico, guardando certe ghigne e certe carriere premiate, non avrebbe sicuramente sfigurato.
Il vescovo gli ha dato ragione nella cassa. Non è troppo tardi, soprattutto per il povero prete? Viene di pensare a quella pagina tremenda del vangelo sui farisei che danno ragione ai profeti morti, testimoniando di essere figli di quelli che li hanno uccisi (Mt 23,29-31).
Fra poco torneranno a piangere sul seminario vuoto. Possono chiedere altra semente dopo avere impiegata malamente quella che Dio ci aveva inviata? Può il Signore ascoltarci? Sono il seminari e la diocesi che hanno bisogno di lui, non lui di loro. Secondo me, gli converrebbe fare venire fuori figli di Abramo dai sassi (Mt 3,9). Farebbe meno fatica e avrebbe più soddisfazioni.