mercoledì 12 dicembre 2012

50 Zelinda

50 Zelinda
La bella stagione che sta giungendo mi porta il ricordo di Zelinda, sepolta qualche mese addietro in una giornata di sole, lei che era stata luminosa in tutta la sua vita. Avevamo appena celebrato la prima comunione e ho voluto lasciare la chiesa come in quel giorno. Per due ragioni.
Prima di tutto perché Zelinda, con la sua umiltà, serenità, innocenza, aveva conservata l’anima bambina fino a 89 anni. E dunque, come ci dice il vangelo, aveva diritto a entrare nel regno di Dio con questo titolo di precedenza Inoltre la prima comunione è solo un’ombra, pallida e sbiadita, della grande comunione della morta. Difatti nella comunione il Signore si presenta nel mistero, velato nel pane e, mentre la morte strappa il velo e toglie il mistero. Per questo è la vera comunione.
Rimasta vedova e con i figli emigrati per il mondo, come tutti, trascorreva le sue giornate lavorando come una formichina o un'ape. Sempre intenta a fare qualcosa: pulire la casa, vedere dalle sue bestioline, un salto nel cimitero, la messe e soprattutto i fiori e l’orto, la sua grande passione.
Non aveva specie rare ma i suoi vasi fiorivano un attimo prima di quelli degli altri, perché lei sapeva trovare per ogni fiore la sua porzione di luce e il riparo giusto. E nell' orto nessuno riusciva a batterla riguardo a viole e iris. Dio, quante qualità e che colori!
Io mi sento un poco suo parente, perché ha rifornito anche me. Quando mi ha dato i mazzetti delle sue viole, l'ha fatto con una grazia e una contentezza che non mi esce dagli occhi e dal cuore. Si sentiva come in dovere per il fatto che io avevo preferito la sua povertà e avevo onorato le sue creature, a cui lei perfino parlava. Così ogni volta che vedo fra le aiuole due occhi di viola, devo pensare agli occhi sereni e liberi di Zelinda.
I suoi occhi erano chiari e sereni anche perché li aveva lucidati col dolore, per la perdita di persone care anche giovani e per la perdita della salute.
Ma finché ha potuto ha lavorato. Quando l'incontravo sull'aiuola le chiedevo: “Ma per chi lavorate adesso, Zelinda?”. “Per dire la verità, non avrei bisogno, essendo sola. Ma mi sembra che la terra e i fiori mi chiedano la carità e io non sono buona di dire loro di no. Intanto si semina e poi, se si sarà vivi, si raccoglierà e altrimenti pazienza. Noi dobbiamo fare la nostra parte”.
Lei ha seminato e il Signore l'ha premiata. Ha fatto fiorire tanto la famiglia che l’orto, anche quando lei non poteva più, come farà con noi quando non ci saremo. Se avremo avuto il cervello e la fortuna di seminare.
Il vangelo (Lc 21,1-4) narra di quella povera vedova che, tutta riguardosa, si è trascinata lungo i muri nel tempio fino alla cassetta delle offerte, dove i ricchi potevano sfogarsi, per offrire anche lei le sue due palanche. E il Signore ha detto che lei ha offerto più di tutti, perché ha offerto tutto.
Anche Zelinda, piegata e minuta, ha donato nel mondo le sue due palanche, e dunque ha dato tutto. Perciò io la vedo come quelle persone che Dio ci manda per consolarci con la bontà, dopo averci provati con la cattiveria. I santi sono come le legna nello “spolert”. Non si vedono, ma si sente il tepore. E quando si spengono, si sente il freddo. Per questo Dio non può castigare il mondo lasciandolo senza santità.
Adesso che l'abbiamo messa a riposare come semenza di eternità per il grande orto del cielo, abbiamo tutto il diritto di pretendere che il Signore ci mandi altri piccoli fiori nel nostro piccolo paese per illuminare la nostra piccola storia.

mercoledì 5 dicembre 2012

49 Zaccheo e l’albero

49 Zaccheo e l’albero
La figura simpatica, anche se un po' carogna, di Zaccheo, “soreposto che dai pubblicani e ricco”, mi accompagna da una vita. Avevo ancora il moccio al naso che il prete Simeone ci raccontava di questo uomo, basso di statura ma grande di furbizia, che, dopo avere imbrogliato tutti, è riuscito a imbrogliare anche il Signore assicurandosi la salvezza. Mi sono imbattuto più volte leggendo e rileggendo il pezzo quando traducevo la parola di Dio nel calore della lingua di nostra madre.
Addirittura ho avuta la fortuna di visitare anche il suo paese, Gerico, dove mostrano tuttora il sicomoro su cui si era arrampicato per vedere il Signore perché era troppo piccolo. Eppure mi ero fermato al particolare tragicomico della statura, senza dare al fatto il valore di simbolo e di parabola.
Ho capito qualcosa solo l'altro giorno, il 3 di giugno, quando mi sono trovato con don Tonino e i miei paesani a ricordare i dieci anni della ricostruzione della chiesa di sant'Antonio abate, a Venzone, una perla incastonata nella collana delle mie montagne, a 850 m. di altezza.
Mentre cantavo il vangelo di Luca (19,1-10), ho avuta come una folgorazione. Zaccheo non poteva vedere il Signore non perché era basso, ma perché che era uomo. Nessun uomo, di nessun tempo, non è sufficientemente alto per vedere il Signore. Non si tratta dunque di una piccolezza fisica ma ontologica, esistenziale. Anche se fosse stato alto come San Cristoforo, non avrebbe potuto lo stesso vedere con i suoi occhi mortali nè Dio nè il figlio di Dio. Lo aveva detto per altri Dio a Mosè nella rivelazione del Sinai: “L’uomo non può guardare me e restare in vita” (Es 33,20).
Però nessuno può condannare la creatura se, per vedere il Signore, per chiarire il mistero della vita, per cercare la ragione ultima dell'esistenza e la giustificazione del suo combattere e tribolare, si arrampica su per un albero, Magari sul primo che trova. Può essere l’albero della scienza o della filosofia o della psicologia o della tecnologia o della medicina o del potere o del materialismo o un qualunque albero che ti dia almeno l'impressione di esserti distaccato dai garbugli e di essere più forte e più vicino alla soluzione.
Peccato che l’albero, simbolo della razionalità e delle potenzialità umane, può andare bene solo per vedere meglio le cose di questo mondo, nella loro complessità e nella loro globalità. Se si sale sull' albero per svelare il mistero si è scelta la strada sbagliata. Nessun albero, nessuna scala, nessuna montagna, nessuna altezza è sufficientemente alta per riuscire a sbirciare attraverso la porta del Signore.
Allora Dio ha pietà di noi e ci invita a fare il percorso inverso, a scendere giù velocemente da un'altezza inadeguata, a farci piccoli e ad aprire la porta ospitandolo in casa nostra.
Per vedere il Signore, l’uomo non deve alzarsi ma abbassarsi, rinunciando a ogni forme di furbizia e di cattiveria liberando il cuore di tutto ciò che lo tiene ingombrato.
Quando l’anima, mediante la grazia e il pentimento, si sarà disfatto di ogni cosa acquistata malamente e si sarà liberata di tutto ciò che ha rapinato e dissipato a livello religioso, culturale, morale, ambientale e umano, ritornerà ad acquistare l'armonia con Dio, con i fratelli e col mondo. ritornerà bambina. Non infantile o stupida, ma libera e semplice. Allora lui si siederà alla nostra tavola e la casetta dal nostro cuore diventerà chiesa, la prima chiesa, che dà valore e legittimazione a ogni chiesa di sasso, da quella del borgo fino alla cattedrale e all'immensa basilica carica di storia e di arte.

mercoledì 28 novembre 2012

48 Occhi che trasfigurano

48 Occhi che trasfigurano
Non ho alcuna paura a confessare la mia ignoranza o, se preferite, la mia ingenuità. Mi hanno sempre spiegato, da bambino in sù, che il Signore può tutto e così, per una vita intera, ho accettato e spiegato il miracolo della trasfigurazione del Signore come una luce che si è accesa a colpo sul volto di Gesù e i discepoli, che lo avevano visto sempre come un uomo mortale, in un lampo e solo per un lampo l'hanno visto nella realtà nascista della sua divinità. Poi tutto è tornato come prima.
Dovevo andare propio sul posto e trovare un eremita santo e intelligente che ci faceva da guida per finirla di pensare a Gesù come a una sorta di prestigiatore e leggere il vangelo in forma più seria e profonda e vera. Frère Jacques ci ha spiegato che non si tratta di una luce accesa sul volto di Cristo ma di una luce accesa nel cuore degli apostoli. Non è cambiato lui ma sono cambiati loro e con i nuovi occhi hanno visto la realtà in maniera nuova.
Perché una madre riesce a vedere il suo bambino come il più bello del mondo anche quando la fa penare? Perché una moglie riesce a volere bene al suo uomo, e lui a lei, anche quando la bellezza esteriore svanisce e la poesia dei primi tempi lascia il posto alla prosaicità di una convivenza sempre a rischio? Perché una persona riesce a fare per anni e anni sempre le stesse cose, a fare mille volte quella strada, a ripetere quella e sempre quella col cuore contento?
Perché sono trasfigurati interiormente. Non è che la realtà sia luminosa. sono illuminati loro. Ed essendo illuminati vedono tutto luminoso. O almeno sotto una luce positiva che altri non vedono.
L'occhio spento vedrà un porcile dove c'è un palazzo, mentre l'occhio acceso vedrà un palazzo anche in un porcile. E riesce a trasfigurare una stanza, un cortile, una persona malata e noiosa, una stagione della vita. Addirittura un letto di ospedale e un cimitero
L' ho provato e lo provo anche io, Nella mia esperienza di prete e di maestro. Quando ho dentro di me la luce dell' amore, non c'è paese che mi dispiaccia o persona che mi pesi o bambino che mi stanchi. Perché vedo tutto coll'occhio splendente dell' amore e con quello profondo della fede. Amore che colora e fede che trasfigura. Senza deformare la realtà o nascondere ciò che non va. Difatti scopro nella persone il volto di Cristo e vedo il paese come luogo che la provvidenza mi ha affidato per i suoi progetti e per la mia salvezza.
Non è che la gente prima di noi avesse un mondo più splendente. anzi l'aveva sicuramente peggiore. Ma aveva occhi che trasfiguravano e allora trovava la forza di portare la croce e la serenità del cuore anche nella fatica del vivere. Dobbiamo chiedere la grazia di illuminare gli occhi dell'anima e allora anche questo nostro Friuli così povero di prospettive e questa vita moderna così ingarbugliata e complicata e faticosa ci piaceranno. E anche noi non chiederemo di scappare, ma di fare la tenda in questo nostro tempo e in questa nostra terra.
In oriente esiste un ordine monastico in cui i fratelli, trovandosi, non si scambiano il buongiorno e neanche l’augurio di pace. Ma ognuno dice al fratello: “Che il Signore ti trasfiguri”. La questione è tutta qui. Non è importante che si trasfiguri Lui, anche perché, con i nostri occhi spenti, non riusciremmo a vedere niente. L’importante è che ci trasfiguriamo noi. Allora compiremo il miracolo di trasfigurare anche la realtà e daremo una tinteggiatura di resurrezione e di vita anche alla situazione più ordinaria e prosaica.

mercoledì 21 novembre 2012

47 Una “Strada della croce” che attraversa il paese

47 Una “Strada della croce” che attraversa il paese
Tempo di Quaresima, tempo di Via crucis o “Strada della croce”. Anche i più “cani” sentono la necessità di fare qualcosa per confortare il Signore.
A Basagliapenta la Via crucis è stata tolta da don Sebastiano ancora nel ’72, perché dovevano ritinteggiare la chiesa. Poi non le hanno riappese per non rovinare il muro. L'altro giorno, è venuta da me, una delegazione a chiedermi di tornare ad appendere i quadri. Mi sono ricreato perché, magari a distanza di 23 anni, si sono accorti che non c' erano. E l'ho presa come conferma di ciò che si va dicendo in giro: che la gente torna a sentire la religione. Un'illusione svanita immediatamente. Infatti la motivazione più forte era che la nostra chiesa era spoglia e, soprattutto, che la nosta Via crucis era talmente bella che tutti ce la invidiavano.
Però la questione delle Via crucis mi è rimasta dentro. Come trovare una forma giusta, impegnata, concreta di vivere la passione del Signore?
Credo che tornerò ad appendere la Via crucis quando tutti noi, prete e gente, avremo imparato non a fare il giro della chiesa ma il giro del paese. A trovare le“stazioni” dove Cristo soffre oggi, nella nostra realtà.
Uno che è condannato a portare una croce non meritata e più grande di lui; uno che cade nella disperazione o nella depressione o nel vizio; una madre il figlio, o la figlia, o la fa morire di dispiaceri; uno stanco morto che deve sempre pensare anche per gli altri; uno che deve asciugare i sudori o le lacrime di un malato e di un anziano; uno che è inchiodato per anni in un letto, una carrozzina, nel peso della famiglia, un lavoro che lo scanna e non lo soddisfa; uno che è spogliato nella dignità, nei diritti, nell' onore; un malato terminale e quello che gli sta vicino.
Anche il cimitiero è una stazione, l'ultima. Una persone che gira tutti gli ospedali per trovare una speranza, un giovane che gira tutte le fabbriche e gli uffici per trovare un lavoro, uno che non trova casa. Non sono strade di passione anche queste?
Questo non per togliere alla religione la dimensione verticale e misterica riducendola a sociologia o a filantropia, ma per ubbidire al comandamento di Cristo che ha detto di vederlo nei fratelli. Anche perché oggi Cristo in persona non patisce e non ha senso confortarlo, mentre ogni uomo colma nella sua carne la passione del figlio di Dio (Col 1,24). E lui stesso, alle donne che lo piangevano, ha detto: “Figlie di Gerusalemme, non piangete per me; piangete invece per voi stesse e per i vostri figli” (Lc 23,28).
Mi ha sempre fatto impressione quel prete che trascorreva ore e ore in chiesa a parlare con le statue e, quando usciva, era tanto carico che non riusciva a guardare in faccia e a salutare nessuno. E una volta è successo che un gruppo di giovinastri maleducati hanno forzato la porta della chiesa e, per rubare l’oro della Madonna, le hanno sfigurato il volto. Ha pianto e fatto un mese intero di riparazioni. Quando invece gli hanno raccontato che un giovane aveva violentato una ragazza, ha detto sospirando che sono cose che succedono; per ciò le ragazze farebbero bene a stare più a casa.
Io non dico che tutti quelli che fanno la Via crucis non hanno pietà per il prossimo che soffre. Dico che, partendo dalla compassione e dalla pietà per il prossimo che soffre, fare la Via crucis ha più senso e gusto.

mercoledì 14 novembre 2012

46 Una Storia ai margini della storia

46 Una Storia ai margini della storia
Forse i nostri tempi sono i meno indicati per capire l’Avvento. perché l’Avvento è il tempo del desiderio, della gola, dell'aspettare una cosa bramata. Ma si può bramare quando che si ha tutto? E' questo uno dei tanti castighi della abbondanza: che ti spegne il desiderio, ovvero la cosa più bella della vita. perché la brama accende di luce anche gli angoli più bui dell’anima e una cosa piccola diventa straordinaria. Qualche volta mi viene da chiedermi che prezzo alto che abbiamo dovuto pagare per avere tutto ciò che abbiamo e se abbiamo fatto proprio bene i conti.
Ma se anche abbiamo un po' di abbondanza economica (peraltro più di statistica che reale), non per questo l’Avvento perde di importanza. perché io non posso accontentarmi di cose, che nutre una parte di me ma non tutto me, e, se sono libero dalle preoccupazioni per il pane e il materiale, mi resta tutto il tempo e lo spazio per spalancare il cuore a qualcosa di più alto. L’Avvento diventa così il tempo dell'anima, che aspetta una persona cara. anzi la Persona. E non solo l'aspetta ma gli va incontro, come una madre corre incontro al bambino o il fidanzato incontro alla fidanzata.
Già. Ma dove possono andare incontro a Cristo Signore in questo anno di grazia che Dio ci dà da vivere?
Io non sono un astrologo. Pertanto preferisco consultare la “guida” ufficiale del cristiano, il vangelo. E il vangelo mi dice che lui non arriva in piazza o in municipio. E neanche nel palazzo più grande o nella città più grande. Lui inizia la Storia al margine della nostra storia. Non per il gusto di essere originale o strambo ma per aggiustare gli errori della nostra storia poco esemplare. E per iniziare un’altra storia, alternativa.
Luca dice che sotto di Tiberio Cesare a Roma, di Ponzio Pilato in Giudea, di Erode e della sua parentela disgraziata in Galilea e nei dintorni, di Anna e Caifa a capo del tempio, la parola di Dio giunse a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto (Lc 3,1-2). Cose da mettersi le mani nei capelli! Sarebbe come dire che, sotto di Scalfaro, Berlusconi e Giovanni Paolo II a Roma, della Guerra e di Mussato e di Battisti a Trieste e a Udine, il Signore va a pascolare su in Carnia o in Slavia o in una borgata desolata del Friuli. Perché?
Io non sono il Signore. Ma penso che abbia scelto di andare dove non vanno gli altri, per andare a visitare quelli che non vanno a visitare gli altri, per fare ciò che non fanno quegli altri. Va dagli ultimi per ribaltare la storia, in modo che siano primi almeno nel suo libro e nel suo cuore.
Va dai piccoli, dai poveri, dagli abbandonati, dai dimenticati, dai traditi, dai disperati, dove gli uomini hanno fatto deserto. E nel deserto degli uomini lui fa sentire la sua voce di vita e inizia la sua Storia.
Quanti sono i piccoli? E chi li ha uccisi? Dove vivono? E chi li va a trovare? Che ghigne hanno? E chi li guarda? Cosa manca loro? E a chi interessa?
Se vogliamo avviarci incontro al Signore, per fare un Avvento spirituale oltre che liturgico, basta uscire fuori della porta e mettersi a cercare. Iniziando dai luoghi che nessuno frequenta e dalle persone che nessuno guarda. Ce ne sono in ogni paese, in ogni borgo, forse in ogni famiglia. Perché il deserto ci sta catturando tutti.
La Genesi narra che Caino condusse fuori suo fratello Abele per ucciderlo (4,8). Il vangelo dice che Gesù ha scelto di nascere e di morire fuori dal consorzio umano per salvarci. E' proprio qualcosa di nuovo.

mercoledì 7 novembre 2012

45 Una spada nel cuore

45 Una spada nel cuore
Nel cantare il vangelo di Luca (2,22-38) che ci mostra la processione della vita che entra nel tempio contornata dalla vita che si sta chiudendo, Simeone e Anna, o vorrebbe l'occhio e il cuore su quella persona che, stringendo il suo bambino, porta simbolicamente tutta la vita. Intendo Maria e tutte le madri, che hanno il destino di generare la vita e la responsabilità di crescerla e di offrirla al mondo. L’avvenire della umanità non è nè nei parlamenti nè nelle fabriche nè nelle curie ma sulle ginocchia delle madri. L'ha detto il Concilio Vaticano II.
Perché non sentiamo la grandezza di questa missione? Perché non aiutiamo questa creatura in un compito senza pari per difficoltà, e che interessa tutti? Perché tutto proviene dalla madre, tanto dalla madre terra che dalla madre fisica. E solitamente la più usata, maltrattata, dimenticata dopo il bisogno è proprio lei, la madre terra e la madre fisica.
Sentendo le parole crude e vere del vecchio Simeone, non posso non pensare a mia madre e a tutte le madri, conosciute e non. Io, i figli del mio paese, ogni figlio che viene nel mondo è di consolazione o di disperazione per sua madre, di rovina o di resurrezione? Mia madre e tutte le madri, pensando a me e ai loro figli, cosa gli viene nel cuore? “Benedetto il giorno in cui è nato!” o “Non lo avessi mai generato!”?. Perché, quando il cuore è troppo gonfio e il peso ti schiaccia, ti viene anche di fare ciò che nessun istinto ti spinge a fare: rinnegare e maledire la tua creatura, il tuo sangue.
E mai come oggi il mestiere della madre è difficile, problematico, ingrato e svolto in solitudine. Perché tutti aspettano da lei e tutti le fanno prediche, pronti a condannarla, quando (e chi non sbaglia mai?) sbaglia in qualcosa. Allora il marito le dice che rovina i bambini, il maestro e il professore le dicono che non gli sta sufficientemente sotto, il prete dice che non ha religione e sta uccidendo l’anima del figlio. E ogni giudizio negativo, soprattutto quando ce l' ha messa tutta e le scelte, da fare, sono difficili e contraddittorie e le soddisfazioni poche e nessuna, si tramutano in una spada che trafigge l’anima della madre fuori per fuori. L’Addolorata di Madonna delle Grazie ha sette spade e tutti vanno a pregarla e a condolersi con lei. Credo che qualunque madre seria e cosciente non ne abbia di meno, anche se nessuno l'avvicina con una parola di conforto e gratitudine per avere accettato un compito così tremendo.
Sento tanti preti prendersela stupidamente con le madri di adesso. “Madri assassine!” ha detto loro, uno. Intanto non si dovrebbe parlare di ciò di cui non si ha esperienza. Inoltre dico che una madre di oggi si trova ad affrontare problemi che quelle di una volta neanche si sognavano. E potevano anche illudersi di vedersi ricambiato l’affetto e l’assistenza, mentre anche la madre più ingenua di oggi sa che dovrà vedere del figlio o della figlia finchè potrà trascinarsi, senza pretendere nè un sorso d' acqua da viva nè una messa dopo morta. Perché i figli ne hanno a sufficienza per pensare per sè.
Una volta, il vescovo mi ha detto che è difficile fare il vescovo. Gli ho risposto che fare il prete è più difficile e più difficile di tutti è fare il genitore. Perché noi abbiamo la teoria e loro devono fare le scelte concrete e tenersi i figli anche e soprattutto quando nessun vuole averli. Un vescovo e un prete possono avere un attimo di delusione e di rabbia. Non hanno sicuramente la spada che li fora senza sosta il cuore. Allora, più che fare le prediche alle madri, chiediamo che ci facciano loro la predica a noi. Sulla pazienza e la gratuità.

mercoledì 31 ottobre 2012

44 Un rosario di case

44 Un rosario di case
Ottobre, rosario. Anche in maggio si recita il rosario, ma che differenza fra il pregare allegro della stagione fiorita che si apre al caldo e il pregare pensieroso della stagione che si chiude. Con i fiori si addobba una sposa ma si compone anche una corona da morto, a conferma della verità profonda della Bibbia, dove dice che ogni cosa ha due facce. quando ne ha poche.
Il rosario, se voglio essere schietto, mi ha sempre detto poco. L' ho sempre considerato una preghiera un po' noiosa, come contare le pecore per propiziare il sonno. In più il pensiero mi va a un prete pazzerello che, in un momento di libertà, mi ha detto: “Se io devo dire a mia madre cinquanta volte la stessa cosa, significa o che non capisce niente o che non ha voglia di darmela”.
Ma essendo una preghiera antichissima, deve avere un suo significato e si fa bene ad andare a cercarelo. Ho cercato anche io di fare così.
Il rosario deriva da un fiore, dalla rosa precisamente. I cristiani devono essere le rose del mondo. naturalmente rose genuine, non di plastica, o plastica a forma di rose come quelle del cimitero, a testimonianza di un amore che non esiste.
Dicono che lo hanno inventato i frati perché anche la gente, illetterata, e accompagnasse la loro salmodia con 150 avemarie. Non è giusto lasciar loro, ai preti e ai frati, l’esclusiva di una cosa fondamentale come la preghiera. Come neanche i frati e i preti non devono lasciare alla gente l’esclusiva del lavoro e dei fastidi del vivere.
Anche la monotonia di questa preghiera la metterei accanto alla monotonia della vita: 150 giorni di scuola, cinquanta giorni di lavoro, trenta giorni di ospedale, la vita sempre uguale di una donna in casa, le ore di un operario in fabbrica. Una noia che solo un grande amore può dargli un senso di bellezza e di novità.
I misteri dal rosario sono come i fatti della vita. La Chiesa chiama i fatti della vita di Cristo misteri, perché sono qualcosa di più di un dato anagrafico. Impariamo a guardare e a leggere i fatti della vita e della storia come misteri, in profondità. La ragione deve trasformare i misteri di questo mondo in fatti, ma la fede deve trasformare i fatti in misteri.
Nella vita ci sono i misteri gaudiosi o della speranza (una nascita, un matrimonio, l' andare a scuola, il costruire la casa, il progettare). Ci sono. Non tanti, ma ci sono. Cerchiamo di non sprecare anche quei pochi con la distrazione, la superficialità o l’egoismo. I misteri dolorosi li conosciamo tutti. Quelli gloriosi nessuno li vede, però servono anche quelli per avere il rosario intero. Senza la speranza, la sicurezza della resurrezione e della gloria, la vita non è completa e non ha neanche senso. così, quando soffriamo, se riusciamo, pensiamo che non siamo alla fine della corona ma solo a metà e manca un altro pezzo.
La corona del rosario mi fa pensare al paese. Tante famiglie come i grani della corona. Ma non basta avere i grani per fare una corona. Bisogna che siano legati uno all'altro. Così non bastano le case per fare un paese. Bisogna che siano legate. E mentre la corone è legata col ferro, le case si possono legare solo con l'amore e la condivisione. Per questo dico che un rosario di case è più grande che un rosario di grani. Ma forse anche il trovarsi assieme a passare i grani della corona è un modo per trasformare un paese in un rosario vivente.
Si sa che gli avi hanno adoperato più la corona che le mandibole e non era giusto. Come non è giusto adoperare solo le mandibole in un egoismo carico di superficialità e disperazione.

mercoledì 24 ottobre 2012

43 Un popolo condannato a fare scelte disgraziate

43 Un popolo condannato a fare scelte disgraziate
La liturgia aquileiese ci fa cantare il vangelo di Gesù che entra in Gerusalemme due volte: nella domenica delle Palme e nella prima domenica di Avvento. perché è anche l’anno liturgico è Cristo che, nel nome dal Padre, entra nella storia a salvare la storia.
Per una volta non voglio soffermare la mia attenzioni sulla parte centrale, su Cristo, pazienza di Dio, che viene avanti cavalcando un asinello, re dei pazienti. Voglio guardare le comparse, la gente e soprattutto i bambini che gridano contenti e spezzano rami dagli alberi, dopo avere disteso i mantelli lungo le strade.
Una scena commovente, da straziare il cuore. E il cuore si strazia veramente pensando che la gente non è cattiva e che riuscirebbe a capire con sufficientemente chiarezza se uno viene nel nome del Signore o no. Per quella verginità non rovinata o compromessa dai traffici e della cattiveria della vita. Ma quella gente li, in prima piano, non è quella che conta di più. Quella li può gridare o tacere
Quelli che contano, i veri registi, quelli con il megafono in mano, non si vedono, perché tessono nell'ombra del tempio o nei palazzi della politica e della economia, e si preparano ad adoperare le stesse comparse per suonare un’altra musica. Difatti pochi giorni dopo, sempre quel popolo grida tre cose infami: di liberare Barabba, di mettere in croce Gesù e, peggio di tutte, che il suo sangue ricada sopra di loro e dei loro figli. Matteo dice chiaramente che i superiori dei sacerdoti e degli anziani riescono a convincere la folla.
Non servono tante cose per convincere la folla. Basta togliere ciò che serve e dare ciò che non serve. Togliere dignità, libertà, istruzione, scuola, possibilità di ragionare con la sua testa e di fare quattro conti. Dare paura, ricatto, mitologia, promesse golose e false. Una cosa che sanno benissimo tutte le dittature, tutti i regimi, tutti gli stati nazionalistici, tutti gli imbonitori e i piazzisti.
La folla di Gerusalemme che si auto condanna mi richiama i tedeschi e gli italiani che gridavano contenti di andare a morire stupidamente e camminando sui corpi dei nemici inventati. O la mania pericolosa di volere onorare i monumenti e i morti in guerra più degli altri morti. O le adesioni plateali alle nuove formazioni teledipendenti. O la (a)morale delle telenovella che deride la vera morale e i veri valori. O anche la disistima, quando addirittura non diventa odio, per la propria cultura, lingua, tradizione religiosa.
Quando la mia gente protesta contro la lingua friulana nelle funzioni religiose, invece di protestare contro la lingua italiana, o rinnega la sua storia millenaria per vantarsi di una storia più recente, meno onorevole e soprattutto straniera, non devo pensare ai registi, nascosti, ma non tanto, che manovrano il popolo contro i suoi interessi vitali e lo spingono a fare scelte disgraziate, come esaltare i delinquenti e condannare i buoni, sbeffeggiare la verità e incoronare la bugia?
Nella passione del Signore le vittime sono due: il Signore che muore per salvare il popolo e il popolo che condanna l’unico che può salvarlo e dargli risposte di vita alla sua domande di vita.
Per questo Venerdì Santo, nel cantare gli “Improperis”, ribalterò il testo e dirò: “popolo mio, cosa ti hanno fatto? Quando ti hanno maltrattato? Rispondimi!”. Se fa pietà il Signore spogliato e deriso, non deve fare scoppiare il cuore anche il popolo, spogliato, vestito di abiti esteri e condannato a condannarsi? “Ecce homo!”, ma anche “Ecce populus!”.

mercoledì 17 ottobre 2012

42 Un pane per ogni fame

42 Un pane per ogni fame
Nell' iniziare il tempo santo e salutare della Quaresima, che ci prepara e ci instrada al mistero della passione, della morte e della resurrezione di Cristo, specchio e causa della trasformazione in gloria del nostro destino, il pensiero mi va agli anni lontani del seminario, quando si festeggiava il carnevale con le Quarant’ore e si iniziava la Quaresima con una giornata di ritiro spirituale con le meditazioni sulla morte. Tanto per tirarci sù di morale.
Un anno uno sciocco di predicatore ha iniziato la predica gridando: “Son finiti i bagordi! Son finite le cenette!”. Ma sapeva dove parlava e a di chi si rivolgeva?
Errori che non capitano solo agli oratori dei consacrati se qua e dove si insiste con una monotonia stupida sull' edonismo, sulla troppa abbondanza, sulla civiltà dei consumi. Come se la gente di Basagliapenta e dei paesi e quelli che vivono nei deserti dalle montagne fossero tutti ubriaconi e barbari, rabbiosi perché la giornata ha solo ventiquattro ore e non arrivano a sfogarsi fino in fondo.
Non dico che qualcuno non oltrepassi la misura, con grande danno per la sua salute e scandalo per le condizioni di miseria che ci sono nel mondo. Ma se quell'oratore entrasse in una dalle nostre case, sempre più solitarie, dove si trascinano vecchi soli, dove tanta gente si rovina gli anni più belli per assistere malati o per allevare bambini che avranno bisogno dei genitori fino che gli viene la gobba, dove uomini e donne lavorano nei giorni feriali e festivi con l’unica sicurezza di dover pagare sempre e inutilmente, cambierebbe tono. O almeno tacerebbe.
Perché la gente combatte tanto e gode poco e si trova magari con le case ristrutturate e con qualche soldo nella tasca, ma con problemi grandi come montagne. E se stenta a credere, è per il fatto che stenta a vivere.
E qui vado a cercare luce nel vangelo delle tentazioni, dove il diavolo provoca il Signore a saziare la sua fame col pane che lui gli fornisce. “Se sei il figlio di Dio, comanda che queste pietre diventino pane”. E Gesù gli risponde: “è scritto: L’uomo non vivrà solo di pane, ma di ogni parola che esce fuori dalla bocca di Dio” (Mt 4,3-4).
Il peccato dei friulani, della nostra generazione e di quelle prima di noi, è stato di avere combattuto troppo per il pane e. perché non c'era e perché la fame del pane si sente. Il nostro peccato, se è un peccato, è quello di esserci illusi, dopo secoli di miseria, che riempendo lo stomaco e il frigo, si riempiva anche il cuore.
Risolta in buona parte la questione del pane e materiale, ascoltiamo la racomandazione saggia e santa di Cristo, che l’uomo possiede più tipi di fame e dunque gli servono più qualità di pane.
Gli serve il sostentamento della mente con la cultura e il libro; quello del cuore coll'affetto, l’amicizia, la solidarietà, l’armonia in casa e fuori; quello dell’anima con la preghiera, la meditazione, il silenzio, la contemplazione, il perdono, la fede, la consolazione.
Che la grazia di Dio faccia rinverdire la nostra anima riarsa come le piogge della primavera fanno rinverdire campi, prati e colline. Che ognuno di noi abbia, con la sua anima, quell' impegno che mette nell'orto per preparare la nuova stagione. Che non manchino mai, in nessuna casa, un libro, compresa la Bibbia, un fiore di quelli veri, un raggio di sole, un momento di riposo, una parola amica e la presenza consolante di Dio. E lui andrà a controllare se facciamo Quaresima veramente. Non sollevando il coperchio della padella ma curiosando nel profondo del nostro cuore.

mercoledì 10 ottobre 2012

41 Tre regali per crescere

41 Tre regali per crescere
Se la ricchezza di una festa dipende della sua simbologia, è chiaro che l'Epifania, o Pasqua Tafanie, è la madre delle feste. Difatti è difficile trovare un’altra giornata così ricca di significati. Forse per questo il Friuli ha voluto adornarla di tante perle musicali, liturgiche e di costume. Penso alle melodie, alle messe particolari, alle benedizioni, ai pignarûi. Mantenerle per avere un leagame col passato è qualcosa; vivere la loro dimensione di profonda religiosità è tanto di più.
In questo mio cercare orme di Dio nel mondo friulano di oggi, vorrei soffermarmi sul vangelo dei Re Magi, dal momento che la parola di Dio è contemporane a ogni età.
Allora dico che la teologia e l' istituzione ecclesiastica non sono l'unica strada nè la più sicura. I Re Magi sono arrivati, con la loro sapienza umana, dove i preti con i loro messali non sono arrivati. Un popolo vivo deve cercare un Dio vivo. Non tanto o solo nella sua memoria ma nella realtà di ogni giorno. col rischio anche di trovarsi al buio perché non si riesce a vedere la stella. Lui però ci vede, perché Dio ha un occhio più buono del nostro. Possibile che nel Friuli di oggi non si trovi una presenza di Dio, un' incarnazione del suo mistero!
I Re Magi si sono riempiti di gioia appena hanno rivisto la stella. Un popolo non può vivere solo guardando televisioni o palanche o lavoro o roba. Ha bisogno di guardare anche in alto, nel cielo, e di vedere almeno una stella. Per avere orientamento e speranza. Può starci che il cielo sia nella intimità della nostra anima, dove solitamente si trova più buio e freddo. Un popolo non può solo lavorare come il somaro. Deve anche contemplare.
Nel viaggio dei Re Magi per andare dal bambino, vedo come il completamento dell' arco della vita. I sapienti (non suo se erano vecchi; so però che la sapienza viene con l’età e l’esperienza) sanno che la storia non può continuare se non riescono a travasare nelle nuove generazioni la loro ricchezza spirituale e culturale. La storia è figlia di un passato ma anche madre di un avvenire, altrimenti è sterile.
Se vogliamo che il Friuli viva anche domani, e viva con dignità e onore, bisogna che le nuove generazioni abbiano non solo i soldi, la fatica e i sudori degli antenati, ma anche la lingua, la cultura, i valori, la storia, la fede. Altrimenti muoriamo noi ma moriranno anche loro. O vivranno morti nell’anima, che è la peggior morte (Mt 10,28).
Ho ragionato spesso sui regali che i Re Magi avevano messo nelle loro arche. Lo so che gli esperti dicono che hanno voluto, con la luce della fede, professare Cristo re del mondo, prete della nuova alleanza e Redentore della storia per mezzo della sua passione e morte. Sono interpretazioni, e una vale l'altra. Per questo vado a cercare un significato più vicino a noi. L’oro significa la padronanza, l’incenso la preghiera e la mirra il dolore. Se io dovessi fare un regalo a mio figlio, non potrei trovare significato più splendido.
Un bambino diventa grande solo se riesce a padroneggiare se stesso, a trovare uno spazio per la preghiera e per il trascendente e a portare con forza la croce che la vita gli prepara. Fino a che non sa comandarsi, aprirsi al trascendente e pagare di tasca propria il prezzo della vita rimane bambino, egoista, raggrinzito nell’anima, una tragedia per sè e per il mondo.
Naturalmente il discorso vale anche per il popolo, se vuole crescere.

mercoledì 3 ottobre 2012

40 Trasfusioni

40 Trasfusioni
La nostra piccola comunità ha vissuto una grande giornata: il perdono del Rosario e il 35mo dei donatori di sangue. Una festa doppia ma unificata da quella armonia fra corpo e anima, fra vita spirituale e vita materiale che non deve mai mancare, come non manca nei quindici misteri di Cristo e di Maria.
Guardando il coro addobbato da 42 bandiere, le vedevo come un grande rosario, fatto con i grani della solidarietà. E mentre alzavo il calice col vino, non potevo non pensare che il sangue dato dalla nostra gente è un segnale ancora più significativo e luminoso del mistero. Un mistero, quello dal sangue di Cristo e dei donatori, dove scompare ogni aspetto cruento per lasciare spazio all' amore. Non si può dare qualcosa di sè, che è il regalo più vero, senza amore.
I friulani hanno sempre dato il sangue. O in guerra o per il mondo o anche in casa. Più che dato, gli e l'hanno tolto, succhiato come le sanguisughe. Per questo credo che il nostro popolo, con tutti i suoi difetti e la “normalizzazione” di questi anni sul modello italiano, sia in debito nei confronti di uno stato che lo munge senza misura e senza creanza, facendo divierei le spese e i doveri di solidarietà ma non i vantaggi e i diritti di parità.
A questi fratelli, cristiani di fatto, anche se non sempre di nome, gli direi che la più grande speranza per un popolo è il popolo stesso e che, per tanto confusa sia la situazione, quello che ha voglia di fare il bene può farlo anche oggi. Grazie allora per le trasfusioni di sangue, che cercano di riportare salute a un corpo malato.
Ma la salute è qualcosa di più grande e profondo dell'essere a posto coi valori del colesterolo e con i trigliceridi. Anche il maiale, beato, scoppia di salute. Per questo dico che, oltre alle trasfusioni del sangue, servono, per tutti noi, altre trasfusioni.
Per esempio trasfusioni di cultura. Un popolo che non riesce a mettere, nel carrello colmo della spesa, anche un libro o che non ha tempo di conoscere, stimare, tramandare la sua cultura, storia, lingua, esperienza, non è sano. O è sano solo nel corpo e dunque in pericolo di essere adoperato come un somaro, che si preferisce sano. Un popolo che non adopera la sua testa, viene adoperato.
Ma anche trasfusioni di preghiera, di contemplazione, di riflessione, di profondità. Preghiamo troppo poco e in famiglia abbiamo il terrore di fermarci un attimo a pregare, a leggere una riga di vangelo, a scambiarci pensieri spirituali. E neanche in chiesa sentiamo il senso della essenzialità, dell'eternità, del mistero, di quel Supremo che ha sempre radrizzato la nostra storia e la nostra coscienza.
E servono anche trasfusioni di affetto, di solidarietà, di santo interesse gli uni per gli altri, iniziando dai tanti che muoiono di solitudine in mezzo alla folla anonima.
Aggiungerei, se mi è permesso, anche una trasfusione di coraggio, di ottimismo, di speranza. Un popolo come il nostro, che ne ha viste e vissute di ogni colore ed è andato in crisi più con i soldi che con i debiti, più con i lussi esagerati e inutili che con la povertà dignitosa, non può avere paura se le cose si aggiusteranno, se si tornerà ad avere i soldi contati. Rimane, intatta, la libertà dello spirito, della fantasia, dell' ingegno, tutte perle nostrane che sembrano sparite.
Che la Madonna faccia il miracolo di legare tutta la nostra gente col filo della speranza e dell'amore come una immensa corone. Allora il nostro vocchio tornerà limpido e anche il cuore sentirà un bel tepore.

mercoledì 26 settembre 2012

39 Nell'osteria del mondo

39 Nell'osteria del mondo
I due discepoli di Emmaus, col loro camminare stanco e avvilito, ci hanno regalato una dalle pagine più illuminanti dal vangelo. perché sono lo specchio della realtà di ogni tempo. In ogni tempo e su ogni strada c'è gente che va avanti più per scommessa che per voglia, carica di problemi e col cuore che piange.
E Cristo si è accompagnato con loro come un uguale che palesa una realtà e ne nasconde una più profonda. Difatti loro non erano in grado di riconoscerlo. Ma anche ognuno di noi è un mistero impenetrabile e dobbiamo accettare di fermarci alla facciata, alla voce dell' uomo, senza potere andare a vedere la realtà completa della sua anima.
Dio non si vede ma si sente l’effetto della sua presenza. Come il vento, lo “spirito”, che non si vede ma si vedeno muoversi le foglie.
La presenza di Cristo è una presenza che scalda, a livello di cuore non di speculazione. Difatti essi sentono che gli arde il cuore, perché Dio è amore, non ragionamento.
Un amore che anche spiega. Ma partendo dalle Scritture, che dimostrano l’operare di Dio nella storia. Un operare che rinasce alla vita solo passando attraverso la morte e alla gloria solo passando attraverso la passione. Una strada che la nuda razionalità, a pieno diritto, non accetta. Per questo abbiamo bisogno anche della fede e dalla Scrittura per “spiegare” la storia.
Ma di questo pezzo mi piace soffermarmi a due particolari. Il forestiero chiede: “Che discorso facevate fra di voi?”. già! Di cosa parlano i preti quando si trovano, i politici, i lavoratori, gli studenti, le madri e i padri di famiglia? Difatti si parla di ciò che ci sta più a cuore. E a noi friulani cosa ci sta più a cuore, oltre che parlare di calcio, di soldi, di roba, di dolenzie?
I discepoli erano afflitti perché si erano illusi. Per non avere delusioni, non si dovrebbe farsi illusioni. Ma si può vivere senza una illusione, un sogno, una pazzia? E quando uno alla volta crollano i nostri castelli di carta, possiamo rinunciare a tornare a imbastire, magari imprecando, un nuovo castello?
I due amici, senza nome, per rappresentare tutti i nomi, forzano il Signore a entrare con loro perché si stava avvicinando la notte. Una notte e un buio che non possono essere solo astronomici.
Lo forzano a entrare nella osteria. Ma non c'è sufficientemente gente nell'osteria? Non sono il vino e la compagnia che tolgono ogni paura e malinconia?
Intanto nessun bicchiere di vino o bicchierino di grappa hanno mai sciolto nessun problema. L’alcol non riesce a scaldarti il cuore e a darti pace. E tanto meno la compagnia occasionale e la folla. Più grande è l'osteria e più ci si sente da soli. Basta andare su di un marciapiede di metropoli o uno stadio o una discoteca. L’uomo ha bisogno di rapporti personâi, a tu per tu, non massificanti. La televisione può darti l' illusione di una presenza in mancanza di meglio, come un fiore di plastica a un tacagno o disperato che non riesce ad acquistare uno vero.
Cristo entra nell'osteria del mondo perché li è più forte l' illusione della compagnia e dunque più tremenda la sensazione della solitudine. Nessuna confusione o droga o bevanda può sostituire la presenza discreta del “forestiero” che si siede con noi, in un angolo, a spezzare insieme con noi il pane e della solitudine che riempie di tenebre la nostra anima e la nostra vita. Tutte le osterie del mondo messe assieme non arrivano a scaldarti il cuore se non hai vicino anche Cristo, compagno discreto e insostituibile dell' uomo.

mercoledì 19 settembre 2012

38 Requiem per un disperato

38 Requiem per un disperato
Il 20 di giugno del 1995 è morto a Parigi a 83 anni lo scrittore Emile M. Cioran. non era di Basagliapenta e neanche friulano, ma era della grande parrocchia dei disperati e parlava il linguaggio universale del dolore. Difronte a uno che soffre, il cristiano deve tirarsi giù il cappello come davanti a un Cristo, perché sono parenti, anche se non si conoscono. La croce non è mai lontana dal Signore.
Mi ha regalato i suoi libri un mio amico medico, da leggere solo un piccolo pezzo alla volta, come le gocce di un veleno. E Cioran è un veleno, iniziando dai titoli: Squartamento, La tentazione di esistere, Il destino doloroso, Lacrime e santi, L’inconveniente di essere nati eccetera. Pagine di una lucidità tremenda e di una tragicità immensa, che ti fanno diventare pensieroso e pietoso. Dal momento che nessuno riesce a esprimere proprio tutta la sua disperazione, quanta ne aveva avuta il povero Cioran! La allegria, dice Oscar Wilde, può essere falsa, ma la maschera del dolore è sempre autentica.
La vita di Cioran è stata segnata fin dall'infanzia. Era amico del becchino del suo paese, che gli regalava i teschi dei morti perchè giocasse. La sua tragedia è iniziata sui venti anni, con l’insonnia. Per anni ha girovagato per le strade desolate di Sibiu, in Romania, con una tensione nervosa al limite delle forze umane. Il sonno ti permette di spartire la vita in fatica e riposo e di covare un'illusione per il domani. Non dormendo mai, devi guardare la realtà continuamente, senza soste e senza illusioni. questa lucidità, trasformata in superbia (“io sono l’unico che può spiare la vita senza essere spiato”), gli ha dato la carica di vivere, ma in estrema solitudine e ripulso degli uomini.
Neanche sua madre non ha saputo o è arrivata a capirlo. “Se sapevo ciò, abortivo!” gli ha risposto. “Dal momento che sono un incidente, mi ritengo libero nei confronti del mondo e della storia” le ha risposto.
L’ironia del destino ha voluto che morisse senza accorgersi a causa dell' Alzheimer, lui che aveva scritto: “Si può sopportare la vita solo perché si ha sempre la possibilità di farla finita”.
Cioran fa parte di una grande famiglia: Giobbe, Qoelet, Leopardi e tanti altri, conosciuti e sconosciuti, che hanno avuto il destino di guardare in faccia l’aspetto più brutto della realtà: la sua inutilità, le sue illusioni, la sua crudeltà, il suo accanirsi sui più sfortunati. Ha spogliato senza pietà la religione, la filosofia e la storia, palesando le tante falsità. In questo è moderno, perché mai come oggi la vita si presenta come peso e fatica.
“E la fede dove la mettiamo?” dirà il solito cattolico benpensante e pasciuto. La fede non toglie la tragicità della vita e può legarsi benissimo o prendere il gancio proprio nella assurdità di tante esistenze. Il discorso della fede rimane aperto e non viene dalla razionalità ma dalla compassione di Dio.
Personalmente, davanti da un ottimisimo di facciata e ad una allegria volgare e patetica, propagandata soprattutto da una televisione che fa pena nel suo sforzo patetico di fare ridere, preferisco la lucidità disperata di Cioran, tanto più dignitosa. Una lacrima vera è sempre preferibile a una risata falsa.
Spero che il Signore colmi di luce questa anima tormentata che ha dovuto andare avanti nel buio come le talpe sotto terra. Chi ha più diritto di lui e di quelli come lui, che Dio ci manda per richiamarci alla serietà e alla problematicità dell'esistenza? Poche volte la preghiera cristiana ha avuto un significato così denso: “Requiem, riposa, riposa finalmente in pace!”.

mercoledì 12 settembre 2012

37 Prima regola pastorale: umanità

37 Prima regola pastorale: umanità
Sono dodici anni che i miei passi hanno abbandonata la pieve di San Martino di Rivalpo e Valle e in tutto questo tempo, in verità volato, ho cercato di non tradire, se non ogni tanto col pensiero e nel cuore della notte, la nuova famiglia della mia anima.
Per una ragione di concretezza e di onestà.
Non si può volere bene a due donne nè tenere in piedi due famiglie e il cuore dell' uomo, compreso quello del prete che lo ha a tessera, non può essere diviso. Per questo non capisco quei preti che risparmiano l’affetto per i paesani per quando se ne saranno andati via e così tradiscono il loro nuovo paese e mettono in croce il successore.
Ma il caso ha voluto che tornassi a mettere piede, per qualche ora, dove ero giunto prete di nido, a 27 anni, e ho trascorso i quattordici anni della mia maturità. E quando ho visto da lontano quelle case che conoscevo sasso per sasso e quella chiesa dove ho sfogata la mia anima nel bene e nel male, Ho compresa la verità profonda del proverbio: il primo amore non ha fine. Perché si è aperto nel mio cuore come una ferita e il sangue mi gocciolava, ma era una ferita dolce, come le ferite dell'amore.
In un attiamo sono tornato in sintonia con quel tempo fondamentale della mia vita di prete dove che, usanza Gesù a Nicodema, sono tornato a nascere, abbandonati struttura, erudizione, programmi preconfezionati, ogni scienza e forza clericale, per farmi ultimo con gli ultimi e spartire le loro ricchezze e i loro limiti, che non erano “secundum ordinem Melchisedek”. per capire e essere capito, per crescere e per aiutare a crescere. E si può iniziare questa avventura solo se si entra a contatto di anime, in piena gratuità e disponibilità.
Incontrando i pochi che ho trovato, dopo essere stato a salutare i tanti che hanno traslocato nel luogo del riposo eterno, ho compresa la legge della relatività del tempo. Difatti a colpo si è squarciato il velo della separazione ed è stato come se fossimo stati sempre insieme. perché l’anima ritornava a godere e a patire. Ho sempre pensato che l’eternità deve essere una condanna se manca l’amore. Se ci si stanca un’ora, non è da rabbrividire a pensare di affrontare i secoli dei secoli? Ma l’amore è vita e contemporaneità, come il passato è morte e sepoltura. Se ci si vuole bene, si cancella il passato e si è in eterna presenza. Per questo dicono che gli amanti sono in Paradiso.
Di tanto tempo passato insieme, la gente non ricorda più nè lavori nè dottrine nè teologie. Tutto questo viene rimosso per primo ed è da stupidi investire in energie. La gente si ricorda che abbiamo pregato insieme e soprattutto che siamo stati bene assieme.
“Quanto ci manca!” e “Che bei momenti che abbiamo vissuto insieme” sono state le espressioni più usuali. E presentandomi il loro bambino, gli dicevano: “Questo qui è il signor santolo che mi ha cresciuto, di cui ti parlo spesso”. Che si può pretendere di più?
Nel raccomandarli ancora una volta a Dio, l’unico pastore e il vero prete di un paese, torno sulla mia idea fissa o tarlo: la prima regola pastorale è l'umanità. anzi l’unica regola. Intesa nell'esempio dell'incarnazione del Signore. Parafrasando l’imitazione di Cristo, dirò che, se hai umanità, non è importante se non hai altre qualità. Se non hai umanità, anche le tue più belle qualità non valgono niente.

martedì 4 settembre 2012

36 Don Arturo Blasutto, vittima della Chiesa


36 Don Arturo Blasutto, vittima della Chiesa
 
Se non avessi letto che don Arturo Blasutto di Monteaperta di Taipana è morto il 17 di settembre, non avrei neanche saputo che era esistito, e non solo io. Eppure la vicenda mortale di questo servo di Dio è di una drammaticità scandalosa, come scandaloso è il vangelo.
Dei suoi 81 anni (era nato il 23 di ottobre del ’13), ne ha trascorsi 18 nella cura delle anime, con una fine dolorosa, e il resto a casa.
A Oseacco aveva trascorso gli anni tormentati della guerra vivendo giorno per giorno il mistero della incarnazione anche culturale e servendo tutti quelli che venivano a chiedere aiuto, guardando al bisogno e non la militanza ideologica. Questo lo consiglia il vangelo, ma i patrioti e gli imboscati non gli l'hanno perdonato e lo hanno fatto passare come titino.
Nel ’46 è iniziata la seconda e ultima tappa, a Liessa. La sua colpa? Adoperare nel ministero la lingua della gente. Da li accuse, indagini, pettegolezzi, campagne diffamatorie sulla stampa locale e statale. Il vescovo Nogara gli fece firmare professioni di fede italiana per tenere buoni i cattivi, che non trovano in lui motivi di condanna. Il brigadiere di Clodig dice: “Se don Blasutto parlasse in italiano, non avrebbe nessuna accusa”.
In barba alla coerenza e all' innocenza di questo prete, la curia di Udine gli toglie la parrocchia e don Arturo va a cercare un boccone di pane di affetto a casa sua, restituendo il sussidio del vescovo. Ha 42 anni, più giovane della pluralità dei preti che oggi sono in servizio. Prima dice messa in chiesa ma senza campane; poi gli viene inibita anche la chiesa. Un confino umiliante lungo quaranta anni.
Il calvario di don Blasutto è a livello di Stepinac, Mindzenty e Beran. Un vicario patisce forse meno di un cardinale? Con la differenza che i cardinali sono stati condannati dai regimi atei e ritenuti martiri, mentre Blasutto è stato condannato da un regime democristiano e della Chiesa e dunque senza indulgenza.
Quelli che non partivano dal vangelo, come i fascisti, i democristiani, gli italianissimi, i partigiani, i gladiatori e anche gli spioni, hanno avuto tutti il loro premio. Se erano preti, hanno avuto la croce di cavaliere e magari anche il colletto rosso di monsignore o canonico.
Lui invece, che era sicuramente più in linea col vangelo, è stato condannato senza processo e senza appello.
Nogara ha fatto il peggio, Togliendogli la parrocchia. Ma neanche i vescovi seguenti non sono stati da meno. Difatti non gli hanno dato nè un paese nè un titolo, se non altro per onorare i suoi di casa, che lo assistevano. Nel ’56, con Zaffonato, Blasutto  aveva 43 anni. Nel ’73, con Battisti, ne aveva 60. In piena stagione. Riguardo a un titolo ecclesiastico, guardando certe ghigne e certe carriere premiate, non avrebbe sicuramente sfigurato.
Il vescovo gli ha dato ragione nella cassa. Non è troppo tardi, soprattutto per il povero prete? Viene di pensare a quella pagina tremenda del vangelo sui farisei che danno ragione ai profeti morti, testimoniando di essere figli di quelli che li hanno uccisi (Mt 23,29-31).
Fra poco torneranno a piangere sul seminario vuoto. Possono chiedere altra semente dopo avere impiegata malamente quella che Dio ci aveva inviata? Può il Signore ascoltarci? Sono il seminari e la diocesi che hanno bisogno di lui, non lui di loro. Secondo me, gli converrebbe fare venire fuori figli di Abramo dai sassi (Mt 3,9). Farebbe meno fatica e avrebbe più soddisfazioni.

mercoledì 29 agosto 2012

35 Perduto nel tempio

35 Perduto nel tempio
Mi confidava, un vecchio anarchico, che tutte le religioni forti mettono nelle mani della gente debole una corona. Così, intanto che portano avanti i grani, non pensano. “E non potendo contare soldi, i nostri avi hanno potuto almeno contare Ave marie”, diceva a conclusione dei suoi ragionamenti psico-religiosi.
Non voglio pensare che il rosario, preghiera tradizionale e tipica del mese di maggio, sia nato come un imbriglio. Tanto più che anche le terapie moderne cercano di guarire la gente stressata proprio con la ripetizione continua di parole sempre identiche. Una sorta di rosario laico che costa tanto di più di quello cattolico.
Mi piace invece soffermarmi su questo rosario di preghiere come a un specchio della vita, uguale e differente, e soprattutto dove i fatti sono qualcosa di più profondo della facciata. Misteri appunto, di Cristo e di Maria, che danno vita ai grani della corona. E perché non rimanga tutto una cosa astratta, cerco di collegare la nostra vita alla loro, perché i loro misteri illuminino i nostri.
Questa volta voglio soffermarmi su di un mistero gaudioso, il quinto, quello di Gesù perduto e ritrovato nel tempio di Gerusalemme, nel suo prima pelegrinaggio ufficiale a dodici anni. Il fatto è narrato da Luca, l'evangelista dell' infanzia (2,41-50). Si tratta di uno dei sette “dolori” e delle sette “gioie” di Maria.
Bambini che si perdono ce ne sono sempre stati. Ma sembra che adesso il numero cresca, almeno stando alla trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, dove si vedono queste madri, con lacrime grandi quanto noci, che si chiedono disperate dove può essere andato il loro bambino o la loro bambina, il perché sono scappati di casa e soprattutto dove i genitori possono avere sbagliato. Si può discutere sullo stile della trasmissione ma non sulla sincerità dalle lacrime, sulla gravità dal fatto e la legittimità dalle domande. Perché scappano di casa? Cosa gli manca? Cosa cercano? Dove si ha sbagliato? Mollato troppo o troppo poco? Data troppo fiducie e libertà o troppo poca? E dov'è la misura giusta, dal momento che ogni persona è un caso unico?
Maria e Giuseppe si sono accorti della scomparsa dopo una giornata. Se perdersi è una disgrazia, diventa una tragedia se i genitori non se ne accorgono. E non parlo tanto dello smarrimento fisico, perchè ci si accorge anche se manca il gatto, ma dello smarrimento spirituale. Il figlio o la figlia stanno perdendo la strada della chiesa e del paese, il rapporto vitale della comunione familiare, il momento della preghiera, il senso della presenza di Dio, il senso del bene e del male, la visione positiva della vita, il dono della sensibilità e della generosità e magari i genitori non si accorgono perché non hanno tempo di guardare in faccia i loro figli o hanno paura di affrontare certe questioni preferendo parlare del tempo.
Il vangelo dice che il bambino poneva domande. Anche i nostri bambini fanno domande. Magari solo con gli occhi o nel segreto della loro anima. Sul senso della vita, di Dio, sulla scala dei valori, sull'affetto e la comprensione, sull' esempio. E non sempre trovano risposte adeguate, da nessuna parte.
Maria e Giuseppe vanno nel tempio sicuri di trovarlo. Dove andremmo oggi per istinto? In una discoteca? Un bar? Al campo di calcio? Perché il bambino si perda nel tempio, deve esserci già stato, possibilmente accompagnato. A proposito dal tempio, sarebbe troppo comodo fare ironia sui genitori che non vanno a cercare i figli in chiesa perché neanche loro sanno dov'è. Perché l'hanano abbandonata? I nostri giovani trovano qui da noi risposte forti e vere ai loro problemi forti e veri?
Preferisco chiudere queste riflessioni come si chiude il vangelo. con tutta la buona volontà, il figlio resterà sempre un mistero. Anche e soprattutto per i genitori.

mercoledì 22 agosto 2012

34 Ogni terra è santa

34 Ogni terra è santa
Giunti alla fine della traduzione della Bibbia, il nostro gruppo di “Glesie Furlane”, che ha sempre privilegiato un confronto sistematico fra Bibbia e vita e popolo, ha proposto un viaggio in Palestina, nei luoghi che Dio ha scelto come culla e contesto dell' incarnazione del figlio. Nell'occasione ricorderò, insieme agli amici, i miei trent’anni da prete: tanti, tormentati ma anche esaltanti.
Andando in terra santa, non mi aspetto di trovare niente di particolare e non vado neanche con curiosità archeologiche per poter dire di avere appoggiato il piede dove Lui ha camminato. Non è questo l’importante e poi i tempi sono troppo distanti e i cambiamenti troppo radicali per una illusione infantile del genere
Dal momento che la religione cristiana non è una filosofia o una ideologia o un trattato di morale ma l’incontro dell' umanità con Dio mediante la persona di Cristo Gesù, Figlio di Dio presentando una terra e un popolo e un tempo determinati, mi piace andare a guardare il cielo e le montagne e le colline e il lato che lui ha guardato, come a respirare il clima che lui ha respirato nei giorni della sua vita mortale.
La resurrezione ha cambiato tutto, nel senso che e ha tolte le limitazioni di spazio e di tempo e il Gesù di Nazareth morto a Gerusalemme è diventato Signore della storia e salvatore di tutti i popoli. Per cui, se prima si doveva andare dove c'era lui per trovarlo, dopo di questo fatto storico e di fede Cristo è diventato contemporaneo di tutti i tempi e compaesano di tutti gli uomini. E posto che la sua opera giunge ovunque, si deve concludere che ogni terra è santa. Difatti la terra di Canaan è divenuta terra santa a causa sua e non viceversa.
Questo mi permette di guardare con più rispetto e affetto e venerazione la mia terra e la mia storia, dove non manca la presenza di Cristo risorto, e di guardare anche la nostra vita nella cornice della vita di Cristo. Pertanto ogni bambino che ci nasce attualizza il Natale, ogni persona che soffre nel corpo e nell’anima e muore attualizza la Passione del Signore, ogni ingiustizia ricalca l'ingiustizia contro di Lui e ogni perdono è un riflesso del suo perdono. E come lui, per spiegare il mistero del regno, partiva dai campi e dai prati e dall’acqua e dai bambini e dagli uccelli e dagli alberi che aveva sotto gli occhi, così noi dobbiamo vedere nel nostro ambiente fisico e umano una parabola continua dell' intervento salvifico di Dio nella storia.
In questa maniera ognuno di noi ripeterà, rivivrà l' esperienza di Cristo, che andava in giro per le borgate della Galilea e della Giudea guarendo, liberando, consolando, insegnando. Così non solo leggeremo la Bibbia, ma scriveremo la nostra Bibbia, con i nostri profeti, i nostri proverbi, i nostri fatti belli e brutti, le nostre virtù e le nostre infedeltà o idolatrie.
Non so come si presenterà Betlemme o Nazareth o Gerusalemme o Betania o Emmaus. So però che mi sentirò più attaccato al paese in cui sono nato e cresciuto, dove ho fatto e faccio da prete, alle mie chiese e alle case della mia gente, agli amici che ristorano la mia anima. E davanti alle tombe dei miei morti o sentirò più forte la commozione e la parola di Cristo: “Io sono la resurrezione e la vita”. Non mancherà una lacrima sulle tante croci del mio popolo, come Cristo su Gerusalemme, e mi sentirò più invogliato a pregare nella mia lingua. Sul suo esempio , che, nel momento di morire per tutti, non ha voluto rinunciare alla consolazione della lingua di sua madre.

mercoledì 15 agosto 2012

33 Martino, un Santo intelligente

33 Martino, un Santo intelligente
Fra tutti i santi del calendario, i friulani hanno segnato nella loro memoria San Martino, ricordato l' 11 di novembre Anche se non è un ricordo tutto positivo. Difatti, in occasione della sua festa, si dovevano preparare i soldi dell' affitto, che non c'erano, per portarli al padrone, che non ne aveva bisogno ma che non intendeva imitare il Santo spartendo la sua abbondanza col povero mendicante. I padroni ti cacciavano fuori e dovevi trovarti un tetto, “fare San Martino”. Una tragedia che andava ad aggravare altre tragedie.
Martino, vescovo e cavaliere (si tratta di due tradizioni legate fra loro), è collegato anche all' “estate di San Martino”, l’ultimo raggio di tepore prima del grande freddo. Il Santo avrebbe fatto il miracolo per sè, per dare un braccio di fieno al suo cavallo. altri dicono che lo ha fatto per le donne povere e sole, per aiutarle ad affrontare con meno disperazione l’inverno. Difatti si parla anche di “estate delle vedove” e, guardando l’anagrafe, credo che pochi santi abbiano un esercito di devote come lui.
Martino mi piace perché è il titolare della pieve del mio prima amore, Rivalpo e Valle, dove proprio in quel giorno, nel fatidico e fatale ’68, ho fatto l’ingresso ufficiale. Ma il nome mi richiama anche un personaggio unico, Martin Lutero, quello che è andato in rotte con la Chiesa romana perché la voleva più povera, bella, libera, più dipendente dalla parola e dalla grazia di Dio che non dalla parola e dal favore dei grandi.
Ma torniamo all'iconografia ufficiale, quella del mantello e del cavallo e della spada. E' la traduzione plastica del vangelo, che dice di volere bene al prossimo come a se stesso. Difatti Martino ha ragionato (una carità che non ragiona è cieca e non giova a nessuno): “Se mi tengo tutto il mantello per me sono somaro; se lo do tutto a lui sono stupido”. Se non era giusto che rimanesse nudo il povero, non era neanche giusto che rimanesse nudo lui. solo dividendolo a metà si poteva salvare e la carità e la dignità.
Possibile che un principio così savio e santo non può valere anche per i friulani, come cittadini del mondo e di Dio? Nella nostra storia millenaria non abbiamo mai potuto dividere ma sempre regalare e lasciare. Abbiamo dovuto solo dividere i debiti e i danni, mai gli utili e i benefici. Per essere cattolici abbiamo dovuto perdere patriarcato e patrimonio liturgico e culturale. Per essere italiani abbiamo perduto faccia, lingua e portafoglio. Per essere patrioti abbiamo dovuto sorbirci ogni sorta di limitazioni e schiavitù. Per salvare Trieste ci hanno schiacciato; una regione imbastita in maniera scandalosa e intollerabile.
E tutti a farci la predica e a insegnarci i nostri doveri e i diritti degli ospiti. Difatti se in chiesa, a scuola, a una riunione interviene uno stupido di italiano, la prima cosa che si deve fare è quella di favorirlo cambiando lingua. Ma un popolo che non ha stima di sè non può e non ha diritto di aiutare quegli altri. Un popolo nudo o spogliato può spartire solo i pidocchi, che nessuno vuole avere.
San Martino, dacci una santità intelligente o una intelligenza santa. Non ti chiediamo una spanna di mantello. Ci accontentiamo di una po' di cervello e di dignità. Perché un Paradiso di stupidi fa venire i brividi solo a pensare di andarci.
Per intanto San Martino un primo raggio di sole ce l' ha regalato. In Carnia la gente ha iniziato a urlare che è stanca e nauseata di uno stato brigante.