martedì 16 luglio 2013

05 Un chicco di frumento nel deserto



05 Un chicco di frumento nel deserto
L'hanno ucciso a tradimento il primo di dicembre del 1916, nella sua tenda nel deserto, una parte di secessionisti, che risentivano dei contrasti che stavano insanguinando l'Europa durante la prima guerra mondiale. Qualche anno prima aveva scritto: "Pensa che tu devi morire martire, senza niente di niente, disteso per terra, nudo, che non riusciranno a riconoscerti, tutto coperto di sangue e di ferite, ucciso di morte violenta e dolorosa". Doveva trascorrere quasi un secolo, un secolo di guerre innominabili e di rivoluzioni inimmaginabili, perché questo chicco di frumento vedesse riconosciuta dalla Chiesa in maniera ufficiale la sua santità. Un santo dell'altro secolo proclamato all'inizio di questo. Eppure mai come questa volta si tratta di un santo attuale, proponibile come esempio oggi più di ieri, una dalle figure più splendide e provvidenziale per questo inizio di millennio.
Il visconte Charles Eugène della Foucauld, nato a Strasburgo il 15 di settembre del 1858, da una famiglia della grande nobiltà francese, ha avuto tutto, ma è stato segnato da due perdite importanti. Ha perduto presto i genitori e, sull'aprirsi della vita, la fede. Da li è iniziata un'esistenza disordinata. e vuota. Spendeva e spandeva con le compagnie più sballate, al punto che la famiglia ha dovuto metterlo sotto tutore. Entrato nella carriera militare e mandato in Algeria, la sua condotta fu così scandalosa che l'obbligarono a scegliere fra lasciare l'amante o l'Esercito. Preferì lasciare l'Esercito. Stanco e nauseato, inizia a domandarsi se questa è una vita da fare. Intanto ritorna in Africa a esplorare il Marocco, meritandosi la medaglia d'oro della società Geografica di Parigi. E' in questo periodo della sua vita, nel 1886, che Charles, aiutato dal abate Huvelin, si converte in maniera radicale: "Appena ho creduto che esiste Dio, ho capito che non potevo vivere che per lui". Si tratta di trovare la strada che Dio gli domanda per vivere la nuova stagione. Gli sembra che la cosa fondamentale è di vivere l'umiltà e la povertà di Cristo a Nazareth, una intimità continua con lui. E' la spiritualità del perdersi, del nascondersi, dello  sprofondarsi, del lasciarsi morire per Cristo. Entra nei trappisti, poi va in Siria, e in terra santa, poi si fa ordinare prete. Il suo amore per la gente del deserto lo riporta in Africa, in Marocco, nel deserto del Sahara. E a Tamarasset, da solo, una tenda che gli serve da chiesa, da casa e da ambulatorio, sempre aperta a tutti quelli che vogliono entrare, si consuma l'ultima parte, la più feconda della sua vita. Contemplazione, assistenza ai tuareg, esplorazione e descrizione della loro vita e della loro cultura. E' suo il prima dizionari tuareg-francese. Senza nessun prurito di proselitismo, in gratuità assoluta e radicale, come un chicco di frumento disperso nella immensità del deserto. Non ha lasciato alcuno scritto organico, solo qualche spunto di riflessioni e preghiere. La semenza sparsa da frère Charles inizierà a germogliare anni e anni dopo la sua morte, nei Piccoli fratelli e nelle Piccole sorelle di Gesù sparsi per il mondo, cercando di mettere la più grande straordinarietà interiore nel più grande anonimato esteriore.
L'attualità di frère Charles sta nella gratuità, nello sciogliersi nel mondo e al mondo, nell'eliminare ogni apparenza insidiosa e sterile per privilegiare la sostanza, nel rinunciare alla conquista della società lasciandosi conquistare dalla società, nel presentare un cristianesimo inchiodato e apparentemente impotente e non un cristianesimo d'assalto, arrogante e apparentemente vincente. Un cristianesimo minoritario come numero e forza, ma evangelico e sostanzioso. Ma la novità più grande è la maniera di affrontare il rapporto con le altre religioni, in particolare i musulmani. Aveva provato con le baionette dell'Esercito francese, attirandosi l'odio. Ha scelto il rapporto dell'amore e del servizio. Forse è la strada più giusta e più attuale.

martedì 2 luglio 2013

04 Un friulano in Benecija



04 Un friulano in Benecija
La storia dei rapporti fra i responsabili della Chiesa Udinese e la gente della Benecija non è dalle più esaltanti. I momenti più difficili sono due. Il primo avviene sotto il fascismo, col picco del 1933, quando i preti subiscono una autentica persecuzione perché  sostengano una cultura che, per le concezioni ignoranti e villane del regime, è inferiore e indegna della sacralità romana. Il secondo momento inizia con la fine della guerra e ha la sua radice ideologica nel confine fra il mondo occidentale, filo americano, e quello orientale, filo sovietico. Per tanti papaveri democristiani, succeduti ai fascisti ma infettati dallo stesso nazionalismo, parlare in sloveno significa essere comunisti, titini e antipatriottici. I preti originari delle vallate vanno sparendo per ragioni anagrafiche e vengono sostituiti dai friulani. Preferibilmente da quelli meno sensibili ai diritti culturali sacrosanti di quelle popolazioni.
In questo quadro desolante, può capitare che in qualche paese le cose siano ancora più complicate per ragioni contingenti. E' il caso di Liessa, dove una campagna denigratoria ha obbligato il vicario don Arturo Blasutto, di Monteaperta di Taipana, di 42 anni, a ritirarsi per sempre a casa sua, con grande dolore e disonore. In realtà, come conferma il brigadiere di Clodig, "Se don Blasutto parlasse in italiano, non avrebbe nessuna accusa". Bisogna mandare un prete che non abbia nessuna mania filo slovena. Secondo una sua linea caratteristica, il vescovo Zaffonato preferisce la pastorale della blitzkrieg: un salto e via. Con preti giovani, che fanno il loro garzonato e poi tornano in Friuli. Per invogliarli e aiutare economicamente, li farà tutti preti. Sotto mano ha un prete di 30 anni, pieno di vita e di iniziative, rimasto a piedi perché è morto il prete. Così don Azeglio Romanin, di Qualso, dopo avere servito con passione il prete di Sedegliano mons. Gattesco, affronta l'avventura della Slavia, pensando, come tutti, che si tratti di una parentesi. Invece il destino, o la provvidenza, ha voluto che rimanga per 44 anni, dall' 8 di dicembre del 1961 al 5 di novembre del 2005, quando un male che non perdona lo ruba alle sue comunità di Liessa e, col tempo, di Topolò e di Cosizza. La sorpresa di don Azeglio non è solo nel fatto che non tornerà più in Friuli, ma che riuscirà a radicarsi del tutto nella sua nuova comunità, incarnandosi con cuore e anima, intelligenza e volontà. Può starci che anche lui, giungendo con la sua 1100 in quel paese fuori dal mondo, abbia pensato: "Dio, in che parte di mondo mi hanno mandato!". invece quel mondo fuori dal mondo è diventato il suo mondo, la terra della sua anima. E quella lingua che, come tutti, aveva deriso in seminario, è divenuta un tesoro da tramandare ai figli. Lo ha lasciato per testamento: "Non dimenticate le vostre radici, soprattutto i canti del Avvento, di Natale, di Quaresima e della Pentecoste. Nelle loro strofe raccontano e spiegano il mistero. Insegnateli anche alle generazioni di domani". Si è ripetuto con lui il miracolo capitato al vescovo e martire Arnulfo Romero, che è andato per convertire il popolo e invece è stato il popolo a convertire lui. Nel senso di sovvertire la visione della vita e la pratica pastorale.
Sulla sua attività nel circolo Recano, sul suo dinamismo, sulla sua passione per la Chiesa e per l' uomo, sulla sua sensibilità missionaria per la gente della Tanzania non è il caso di spendere parole. Basta dire che, negli ultimi anni, ha adottato e sostenuto negli studi oltre 40 giovani. Missionario del mondo intero abitando in un paesello fuori dal mondo. Mi piacerebbe che la gente della Benecija, con la testimonianza di questo prete onesto e contento, ci perdonasse in parte quel grande debito che noi preti friulani abbiamo accumulato nei loro confronti.