lunedì 26 dicembre 2011

40 Preghiera alla Madonna


40 Preghiera alla Madonna


In casa, ho appeso una bella Madonna con il volto nero e col Bambin Gesù, simile alla Madonna di Castelmonte, ricamata a mano, e non posso guardarla senza sentirmi guardato. E il mio pensiero va ai tanti pellegrinaggi della nostra gente, ai tanti rosari delle nostre madri, alla grande devozione mariana del nostro popolo, sempre ricca di fastidi e di madonne.
I friulani non hanno visto la madonna come una specie di divinità ma come una sorella e una madre che soffriva come loro. E non le hanno chiesto di togliergli la croce e la fatica del vivere, cosa impossibile, ma di tenergli compagnia nel loro calvario di singoli e di popolo.
Con questo spirito, ho voluto aggiungere la mia preghiera alla loro preghiera, la mia litania alla loro litania. L’ho dedicata alla Madonna del rosario, pensando non tanto alle rose ma al mistero della vita. Soprattutto ai misteri dolorosi, che sono i più difficili da comprendere e da accettare, ma anche quelli che più si avvicinano alla gloria.

Madonna del Rosario,
madre di grazia e di misericordia,
madre di Cristo e degli uomini,
regina del cielo e della terra,
madre di perdono e di pace.
Tu che sei madre del Creatore,
vedi anche delle crature e della creazione intera.
Tu che sei madre del Salvatore,
vedi anche di quelli che devono essere salvati.
Tu chge sei la Vergine fedele,
non abbandonarci nella nostra infedeltà.
Tu che hai avuto la fortuna di credere,
vedi di noi che stentiamo molto
ad avere fiducia in Dio e in noi.
Tu che hai toccato, visto, sentito il Signore
E goduto della sua presenza,
vedi di noi che non lo sentiamo, non lo vediamo,
e non soffriamo per la sua assenza.
Tu che hai regalato la Luce,
vedi di noi che girovaghiamo nel buio.
Tu che hai partorito il Giorno,
vedi di noi che siamo in piena notte.
Tu che hai partorito il Tutto,
vedi di noi che giriamo intorno al vuoto
e del nostro essere nulla.
Tu che sei stata chiamata,onorata
E cantata dai nostri padri e avi,
non abbandonare noi, che siamo i loro figli e nipoti.
Tu che hai accompagnato il nostro popolo
Nella sua disperazione per il mondo per guadagnarsi il pane,
non abbandonarci nella dispersione culturale e morale d’oggi
e dacci il pane dell’anima e della mente.
Abbiamo implorato verso di te nelle tragedie delle guerre.
Ascoltaci e aiutaci
Nella guerra di ogni giorno che è la vita.
Abbiamo implorato verso di te quando tremava la terra
Sfigurando i nostri paesi,
ascoltaci e aiutaci ora che un terremoto spirituale
tende a toglierci ogni punto di riferimento
e a sfigurare la nostra anima.
Tu che hai aiutato il nostro popolo
Negli anni tormentati della povertà e della miseria,
non abbandonarci negli anni non meno pericolosi
dell’abbondanza.
Ascoltaci, anche se non ti ascoltiamo.
Guardaci, anche se non ti guardiamo.
Aiutaci, anche se non te lo chiediamo.
Perdonaci, anche se non lo meritiamo.
E mostrati, oggi più di sempre, madre di misericordia,
di perdono e di pace. Amen.

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39 Ipocrisia


39 Ipocrisia

Non credo di aver nessun merito di sorta, se non ho fatto della sessualità uno i miei cavalli di battaglia pastorali. Non ne parlo forse mai, tanto meno in chiesa. Per rispetto del luogo santo, delle persone e della sessualità. E vedendo la deformazione educativa che ci hanno dato in seminario con la “bella virtù” (come se esistesse una virtù brutta), l’insistenza puntigliosa e maniaca di certo magistero, che batte sempre sull’argomento, come un martello sull’incudine, la tanta ipocrisia che questa insistenza settoriale ed esagerata ha creato sulla gente, sempre più mi convince a perseverare su questa mia scelta.
Cristo ha detto: “fortunati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt. 5,8) e la realtà con l’occhio chiaro e chiarificante di Dio. Noi cristiani, soprattutto noi cattolici, non abbiamo l’occhio limpido perché non abbiamo incentrato tutto su un cuore puro e abbiamo preferito la morale alla profondità del cuore, o moralismo del comportamento, delle misure, dai casi, con tutte le precisazioni anche quelle più inutili. Così abbiamo trasformato la pienezza della vita in un caos di pericoli e di scrupoli e Dio ci ha castigato facendoci perdere la libertà di giudizio, per colpa dei pregiudizi, sempre parziali e pericolosi.
Fino a che la Chiesa non giunge a una visione serena, armonica e liberante della sessualità dovrà rassegnarsi a collezionare brutte figure o a non essere compresa dalla gente più libera e sana.
Ma forse è meglio spiegarsi con qualche esempio concreto.
L’altra sera si stava guardando la televisione e a un certo punto si sono visti due che si lavavano completamente nudi. L’anziana signora mi ha detto . “Signor pievano, guardi lì! Deve venire la fine del mondo inevitabilmente!” Subito dopo si è visto un bandito uccidere tre uomini per rapinare una banca. Nessun commento, eppure lì ci si era avviati lungo la strada che porta alla fine del mondo.
Quando la domenica la gioventù del paese parte con la corriera alla volta della spiaggia di Lignano, tante fedeli cattoliche li guardano di traverso. E magari hanno guardato con una punta di orgoglio i propri figli che salivano cantando sul treno che li portava in guerra a uccidere o a morire. E infatti, quando in chiesa ho detto che la frase: “Facciamo l’amore, non la guerra” non era sporca e nemmeno contraria all’insegnamento del vangelo, hanno mugugnato: “Certo che il mondo va male, se anche i preti assecondano gli sporcaccioni e i vizi” e minacciavano di ricattarmi sul quartese.
Se scoprissero un prete intento a baciare una ragazza, urlerebbero tanto da demolire la chiesa. Quando ne hanno visto qualcuno dare pizzicotti ai bimbi al punto da farli sanguinare, hanno detto . “Povero prete , è carico di nervosismo!”.
La stessa cosa vale anche nei giudizi sul mondo civile. Se esce il pettegolezzo che uno è pazzerello o strambo nella sua vita sessuale, ti prende come una specie di ribrezzo e non gli dai la mano, sebbene siano fatti suoi. Cosa che non succede con uno che ti imbroglia rubandoti il portafoglio, che è tuo. Perché siamo sballati e non siamo liberi. Come se guardassimo la realtà con gli occhi strabici. Tutto ciò crea un senso di ribellione soprattutto fra i giovani, che hanno una visione più libera e giusta rispetto a noi, anche se non sempre completa.
Un pittore aveva dipinto per le monache un Cristo in croce. Essendo uno spirito bizzarro, lo dipinse a modo suo, quando lo consegnò, le suore scapparono come pazze gridando al sacrilegio. Il sacrilegio era che lo aveva dipinto nudo, senza uno straccio, non che appesa a quella croce infamante ci fosse inchiodato un uomo giusto e buono.



38 Una comunione più grande della particola


38 Una comunione più grande della particola


Nel tempio di Gerusalemme i momenti più importanti della giornata erano quella dell’alba e del tramonto. E i sacerdoti li santificavano con i sacrifici, più mistico, della lode, o con quello, più crudo o cruento, dell’agnello. Povera bestiolina, condannata a pagare con la sua vita la gloria di Dio e la cattiveria degli uomini! Era forse giusto?
I cristiani si ritengono più fortunati perché invece del simbolo della mitezza sacrificano l’Agnello senza macchia. Ragionando attentamente, sarebbe da quel giorno che siamo passati di male in peggio. Preferisco non pensare alla crudezza di questo Sangue offerto al Padre per i peccati del mondo. Meglio prendere la messa come una grande preghiera di lode e una canzone d’amore di Cristo primizia della creazione e della redenzione. Come una madre che inizia la giornata cantando sulla culla del bambino che si sveglia e la sera canta sul suo addormentarsi.
Vista così, la messa è il momento fondamentale della giornata e la gente dovrebbe fare le corse per assicurarsi il primo posto, almeno come alla partita di calcio o al concerto di un cantante. Invece, gli uomini, e non solo quelli di Basagliapenta, sono tanto convinti del valore universale della lode di Cristo, che lo lasciano pigolare solitario, presi come sono da mille cose indispensabili, utili, inutili e dannose. Così la grande preghiera della mattina e della sera diventa sempre più disperante, con un prete adirato, con qualche bambino irrequieto, dove si ha la fortuna di averli, e un gruppetto di donne che dovrebbero essere la rappresentanza ufficiale della comunità e il suo parafulmine.
Con tutto ciò però ogni messa è messa grande perché il mistero non diviene grande per il numero dei partecipanti ma per il valore in sé, che è infinito.
Ma ritorniamo al gruppetto mattutino delle anime eucaristiche. Non penso che siano, insieme col pievano, le depositarie della lode fra un mare di gente dannata, come qualche volta forse sospetta il loro cuore.
Un giorno le mie fedelissime stavano facendo la lista di quelli che non vengono mai a messa. La lista era lunga e i commenti taglienti. Ce l’avevano soprattutto con i giovani che vanno a ballare e con le ragazze che non mettono piede in chiesa durante tutto l’anno. Una cosa sicuramente non delle migliori, ma nemmeno un delitto.
Ho spiegato loro, con delicatezza e schiettezza, che la lode a Dio è più amplia dell’altare, e allo stesso modo la comunione è più grande della particola, non può iniziare e terminare in chiesa, altrimenti sarebbe veramente un fallimento. Come Cristo prega per tutti, così tutti prendono parte alla sua lode ovunque li conduca la vita.
“I giovani, a quest’ora, non sono a ballare, ma al lavoro. Quella ragazza di cui parlavate ora, che non viene mai a messa, sono quindici anni che parte alle sette la mattina e versa i contributi perché io e voi possiamo ritirare la pensione. Saremmo obbligati ogni giorno a pregare per lei e per tutti quelli che in questo momento lavorano per noi. Come dovremmo pregare per tutti i comunisti e i bestemmiatori che hanno pagato per erigere chiese e canoniche dove, non solo non hanno mai messo piede, ma sono stati derisi oltre misura”.
Sono convinto di aver parlato giusto, allo stesso tempo sono certo di non averle convinte. “Io proseguo con la mia certezza e lui dica ciò che vuole. Mia madre diceva che laddove non entra il Signore, entra il diavolo. E una ragazza che non va a messa, se io fossi un ragazzo, non la toccherei nemmeno con la forca del letame “.
È grande il mistero della fede!

37 Quanta devozione a Bressa!


37 Quanta devozione a Bressa!



Sembra che le mie campane, in questi giorni suonino inutilmente, più che in altri periodi dell’anno. Come se nessuno avesse né voglia né tempo di ascoltarle: vecchi stanchi, giovani assenti, uomini impegnati, bambini a guardare la televisione.
Dove sono andate a finire le campane del sabato sera? Quelle campane che dovevano riservare la loro più bella armonia per “suonarla al termine della guerra?” ma era il suono che era bello o era la guerra che rendeva il cuore più disponibile e sensibile? Già, la guerra…
Ho fra le mani il libro di Giacomo Viola “Una vera Babilonia” , dove si narra che i preti friulani raccontano della tragedia della prima guerra, la grande guerra. Ovunque grandi preghiere, voti, comuniuoni generali. Bressa è stata la capitale spirituale del Friuli. Nel 1917 28.620 comunioni, 70 al giorno durante la settimana e 630 nella giornata eucaristica ( non hanno celebrato la Pasqua tre uomini e due donne).
Ebbene, in data 18 aprile 1918, il pievano pre Francesco Lucis annotava: “Giovedì. Campane Addio! Giorni loschi, oscuri – i manigoldi, sacrileghi ci hanno portato via le campane. A colpi di mazza ferrata le hanno spezzate tutte tre sul campanile. Per la maggiore si diedero 554 colpi per spezzarla. 554 colpi al cuore di tutti – molti svernnero a quei colpi. Venerdì mattina gettati i pezzi della maggiore (Immacolata). Venerdì sera ore 19 spezzata e gettata la mezzana Elisabetta. Rimane la minore Maria Teresa – come un’orfanella di Dio, quale agonia nel paese! Il parroco fece l’impossibile per ottenere almeno la grande – fu impossibile!”.
Il 24 di aprile anche Maria Teresa abbandona il campanile. Le avevano benedette il 19 marzo del 1907.
Certo che a leggere di questa gente che conta i colpi come fossero delle coltellate e che collassano, devi per forza, rincuorarti. Basta che il rincuoramento non ti impedisca di pensare. E di porti domande come questa: “Quante volte avevano suonato inutilmente, per tanta gente, prima di quel giorno?”. O questa: “Adesso che a Bressa non hanno più la guerra, quanti sentono suonare le campane la domenica e nei feriali e quanti di questi rispondono all’invito?”. Se queste persone nutrivano tutta questa devozione, com’è che non l’hanno trasmessa ai figli e ai nipoti assieme alle case e ai terreni? O non era tutto oro quello che luccicava, come non è tutto scarto quello d’oggi?
Mi rammento di un altro prete di Bressa, il vecchio pievano di Paularo, che ci diceva avvilito (eravamo nella rivoluzione del 68): “Come ci siamo ridotti malamente!” E pensare che in tempo di guerra non ci si parava dal confessare e comunicare!” gli ho suggerito, stupidamente: “Non potremmo fare un triduo per far ritornare la guerra e così la gente tornerebbe in chiesa?”.
Stiamo attenti a non confondere il bisogno psicologico o spirituale con la fede e la chiesa colma con una vita piena di religione. Se frequentano solo perché hanno paura o non sanno dove andare, quando non hanno più timore o hanno un soldo in tasca non vengono più in chiesa.
Un giorno mi sono confidato con don Antonio Graffi, di Rodeano, che ora si trova nel ricovero del seminario di Udine. “Ma era tanto bello una volta?” “Per noi preti no. C’era tanto lavoro e ubbidienza e pochi soldi. Ora si può respirare, dire ciò che si pensa e si ha qualche soldo da parte. Riguardo la Chiesa, anche una volta quelli che avevano la motocicletta non veniuvano al vespero. Solo che ora l’hanno tutti e allora ci si accorge maggiormente del vuoto.”


36 Il corpo regalo di Dio


36 Il corpo regalo di Dio


La mia pievania, come molte in Carnia e in Friuli, è dedicata alla Madonna Assunta in cielo, o madonna d’agosto. Ora, con la secolarizzazione, si è semplificato in “Ferragosto”, senza Madonna.
Come pievano e come prete, mi tocca immedesimarmi nel mistero per poter trasfondere un po’ del suo significato più bello e per poter consolare i miei fedeli lontani, con la visione della vita eterna, ancora più distante. Difatti mi sento sempre più imbarazzato a spiegare loro la belezza della Madonna Assunta in cielo in anima e corpo a gente che non si preoccupa troppo per l’anima e che il proprio corpo lo stenderebbe più volentieri sulle sabbie di Lignano, in mezzo a tanta grazia di Dio.
Posso, in coscienza, proseguire con la nenia, che i pagani, i materialisti, gli sporcaccioni si accontentano della banalità del ferragosto, a ricordo dei bagni dell’imperatore Augusto, mentre i cristiani avranno le loro ferie nell’aldilà? Ha senso, se mai ne ha avuto, questa campagna di rinnegare, denigrare, svalutare, contrapporre il mondo dell’aldiqua al mondo dell’aldilà?
Ho ancora in mente certi santi che facevano le gare a chi pativa di più e maltrattava il suo corpo col richiamo del cielo, l’unico luogo dove un cristiano ha diritto di riposare. E questo l’hanno fatto molte volte adoperando il mistero dell’Assunta, collegato al mistero più grande dell’Ascensione è una verità più vere della fede cristiana, anche se proclamata solo in questo secolo. Ma il fatto che la Madonna sia stata portata in cielo “in anima e corpo” è contro o a favore del corpo? Il fatto che Cristo abbia scelto di salvarci incarnandosi in un corpo come il nostro è pro o contro delle realtà corporali? La fede nei nuovi cieli e nella terra nuova è a favore o a scapito del nostro cielo e della nostra terra?
Il groviglio sta tutto qui. Io vedo il mistero dell’Assunzione della Madonna della Ascensione di Cristo e dell’ eternità non come la svalutazione del nostro mondo e del nostro corpo, ma come la più grande esaltazione e rivalutazione. Il mistero ci insegna che la realtà corporale che viviamo, la nostra “tenda” del tempio, non solo è bella e santa e godibile ma è la via che Dio ha preferito per portarci alla pienezza. Che non sarà l’eliminazione del corpo, ma la sua glorificazione e il suo completamento.
Perciò non vedo nessuna contrapposizione fra la sabbia di Lignano e il paradiso, fra la nostra gioventù mezza nuda e arrostita con la radio che schiamazza e i santi del cielo, vestiti solo di luce, scottati dall’amore di Dio e intenti a cantare “Santo, santo, santo” a oltranza. Si tratta di far divenire eterno e per tutti ciò che è solo per pochi e dura un solo attimo.
La Chiesa, riuscirà finalmente a guadare il corpo dell’uomo e della donna, con tutte le potenzialità e funzioni e bellezze, compresa la sessualità, con occhi illuminati da questo mistero? Riusciremo a vivere e a godere tutto ciò di cui si può godere senza dover attenderci tutto nell’aldilà?
La Bibbia dice che il corpo dell’uomo e della donna li ha creati il Signore che, a opera conclusa, era contentissimo della sua fatica, di questo specchio della sua bellezza. Una tradizione della Chiesa, troppo lunga e ampliata, fa sospettare invece che il corpo non sia un dono di Dio, da adoperare in letizia, ma un dispetto del diavolo, di cui disfarsi il prima possibile. Esattamente il contrario del mistero del corpo glorificato di Maria e di Cristo.


venerdì 23 dicembre 2011

35 Una formica sull’altare


35 Una formica sull’altare


Negli anni lontani della nostra ingenua innocenza, ci insegnavano che più si era vicini all’altare e più si era partecipi del mistero e si aveva diritto a spartire i benefici. Per una sorta di radiazione sacramentale, che colpiva a causa della vicinanza, come fanno tutte le radiazioni. Difatti quelli che si trovavano in fondo alla chiesa ricevevano solo un po’ di benedizione e quelli che stavano fuori la chiesa, sul muretto, meritavano schiaffoni in volto. Ci portavano anche il paragone. Il pastore vuole bene a tutte le pecore e vede di loro con la stessa cura ma, se ha in tasca una manciata di sale, la spartisce fra le pecore che gli sono più vicine. Queste sarebbero le anime eucaristiche.
Naturalmente questo ragionamento non ha modificato il vizio dei friulani che, fra tutti i posti in chiesa, preferiscono infallibilmente quello più lontano all’altare e più vicino alla porta.
Tutto questo lo rimuginavo a messa, fra una distrazione e l’altra, guardando le mie pecore sparse fra i banchi e così poco golose delle radiazioni eucaristiche. Fino a che l’occhio non mi è caduto sull’altare, dove una formichina stava passeggiando fra la patena e il calice.
“Dio che fortunata questa bestiolina, più vicina di tutti noi al grande mistero e dunque la più esposta alle radiazioni amorose del Signore!”. Solo che la formica non dava alcun segno della fortuna che l’era capitata. Non stava ferma un attimo e nemmeno durante la consacrazione ha avuto il buon senso e il pudore di fermarsi ad adorare.
Già! Basta essere sull’altare o in chiesa per prendere la grazia del sacramento? Basta una presenza fisica per essere fra le anime privilegiate? Basta andare a messa ogni giorno o dire messa per essere contaminati dalla grazia? Basta avere una chiesa nel paese, magari fornita a puntino e con cose lussuose, per assicurarsi la presenza del Signore e la sua benedizione? Quelli che si recano sempre in chiesa sono più colmi di grazia di quelli che ci mettono piede solo per sbaglio o per un dovere?
Domande per nulla banali e risposte per nulla scontate.
Noi siamo un paese, un popolo a struttura cristiana, anche cattolica. La scansione del tempo e dell’anno, i proverbi, e la parlata, perfino il nostro bestemmiare ha, magari a rovescio, un riferimento specifico al mondo religioso. Che ha spadroneggiato fino all’altro giorno, con grande consolazione della classe clericale convinta che i numeri in crescita indicassero una crescita automatica della fede. E la massa di gente ci ha tanto entusiasmato che non abbiamo sospettato che questa stessa gente sarebbe scappata in un battito di ciglia con i primi soldi in tasca e con il primo assaggio di libertà.
Ovunque sembra che si abbia come un senso di nostalgia per le chiese stracolme, per le falangi degli iscritti all’Azione Cattolica, per l’identificazione del mondo con il mondo religioso sotto il comando del prete.
Solo che, guardando alla realtà di oggi, devo chiedermi se questo mondo è mai esistito,se veramente siamo stati colpiti dalle radiazioni della fede o se invece ci siamo trovati per caso in un contesto sacrale come la mia povera bestiolina nera sull’altare.
Il salmista guarda con invidia il nido della rondine sotto le tegole del tempio (Sal 84,4). Per la rondine avere il nido in chiesa può essere sufficiente. Per noi sarebbe troppo poco. Siamo a posto solo se meritiamo che il Signore faccia il nido nel nostro cuore.

venerdì 16 dicembre 2011

34 A Bepi, di Ursula, schiacciato dal peso della vita


34 A Bepi, di Ursula, schiacciato dal peso della vita



Bepi, è volato già un mese da quando ti abbiamo trovato disteso con le braccia spalancate come un povero Cristo con la bottiglia dell’acido muriatico accanto.
A dire il vero la Chiesa non concedeva i funerali in simili casi, almeno per i poveri. Per un rispetto teorico della vita, uno che aveva vissuto da cane ed era morto da cane, doveva anche congedarsi da cane, condannato anche nella memoria collettiva. Ora la cosa è più giusta, perché si deve guardare a quanta disperazione ha quello che taglia il filo dei suoi giorni. E per non andare fuori strada, abbiamo letto, durante la messa, due esperienze tremende: il pezzo di Giacobbe 14, sull’uomo che vive pochi giorni, carico di tormenti, appassisce come un fiore e sfugge come l’ombra. E l’altro del Figlio di Dio che verso le tre, l’ora della tua morte, ha gridato a gran voce: ”Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27,46). Tu, sei dunque in buona compagnia e soprattutto in grande compagnia, perché tutti si percorre quel sentiero.
Tutti a questo mondo, si patisce e si hanno momenti di crisi. La tragedia nasce quando non si intravede una via di fuga, come un topolino in trappola. E allora tutto diventa un nemico: Dio, la religione, i familiari, i paesani. E difronte alla disperazione infinita, la strada più corta è quella del suicidio. Magari soffrendo da bestie.
In predica ho spiegato che i romani adoperavano la stessa parola, pietas, per indicare sia Dio che i morti. La pietà è il ricordo, il rispetto, il silenzio, l’adorazione del mistero. Se Dio è il mistero, è mistero anche il cuore dell’uomo. E ci si deve fermare dinnanzi alla porta. Per questo la gente non lo deve nominare invano, ma solo per ricordarlo, pensarlo, adorarlo. Con la testa bassa e la bocca chiusa.
La Bibbia dice, con grande sapienza, che l’uomo deve lasciare i genitori. Nel tuo caso, e non per colpa tua, è successo qualcosa di innaturale. Hai vissuto assieme a tua madre, voi due soli, per troppi anni e soprattutto anni di malattia, quando la convivenza si fa più problematica, in tanto tempo i rapporti s’invertono. Prima si diventa come marito e moglie e poi il figlio fa ciò che sua madre gli aveva fatto quand’era bambino: lavare, nutrire, vestire, vegliare, sopportare. E il figlio diviene madre e la madre diviene figlia. E quando muore la madre, magari a 98 anni, è come morisse un figlio, con tutte le conseguenze del caso. Non si può staccare una vite dal muro, senza strappare un po’ di intonaco.
Tu, sei sempre stato considerato pazzo. Ma nella tua follia non hai commesso danni e le porcate di tanta gente savia. E sei riuscito a essere splendido, anche troppo, con persone che erano considerate per bene e ti sfruttavano. Meglio matti senza colpa che criminali con colpa.
Ho avuto modo di vedere i giovani del paese, portare la bara in spalle. Lo hanno fatto volentieri. Ti abbiamo sepolto accanto a tua madre, come foste stati a casa, letto accanto a letto, fino all’altro giorno. Solo che ora il sonno sarà più lungo, anche se meno doloroso.
Spero che, con tanti fiori che hai regalato nei momenti di euforia, qualche donna si ricordi di portarli, a te e a Ursula, in segno d’affetto.
Il borgo è diventato più silenzioso, con le case che si chiudono. Il gatto viene a mangiare da me e non zoppica come prima. Mi sembra che la ferita alla zampina si è rimarginata. Speriamo che il tempo guarisca anche le ferite delle nostre anime.
Guardo spesso la cartolina di Villacch col tuo “Auf wier-dersehen”. Ti rispondo ogni giorno col nostro: “mandi”: “vivi a lungo”. “vivi in Dio”, “ti raccomando a Dio”.

martedì 6 dicembre 2011

33 Sant’Alessio sotto la scala


33 Sant’Alessio sotto la scala


Un santo simpatico Alessio: giovane, bello, biondo, sorridente, sempre disponibile, pura preghiera, virtù, umiltà, con una luce di cielo negli occhi celesti, e un’aureola in testa, fornitagli da Dio a testimonianza della sua santità. Era ricco di famiglia, ma solo per poter aiutare i poveri e salvare la categoria. Si era anche sposato, ma senza malizia e solo per ubbidienza e per poter essere presentato come esempio di castità.
Così ho imparato a conoscere questo santo venerato in Ordiente, dove aveva vissuto per diciassette anni a Odessa servendo i malati, e in Occidente dove ha vissuto altri diciassette anni a Roma, sconosciuto nel palazzo di suo padre, a servire i suoi servi fra mille umiliazioni e botte. La Chiesa lo ricorda il 17 luglio.
Lo avevano confinato sotto la scala e lì lo hanno rinvenuto morto con il diario della sua storia fra le mani e tutto circondato di luce. Sua madre lo baciava e gli chiedeva perdono per non averlo trattato bene, che se avesse saputo che era sua figlio, potete immaginare se lo avrebbe lasciato in quel canile. Già, si dice sempre così quando oramai è troppo tardi.
Mia nonna Anna di Davai conosceva giusto il succo di questa storia meravigliosa e non la ricordava mai non a causa della sua santità ma dei suoi occhiali. Perché li cercava ovunque e li aveva sul naso, proprio come Sant’Alessio, che lo cercavano ovunque mentre l’avevano sotto gli occhi.
Che bella storia e che grande insegnamento per tutti! Soprattutto oggi che si cercano tesori esotici per mari e monti e più si cercano più si allontanano e più si è inquieti. Perché il tesoro serve, come dice il vangelo “là dove è il tuo tesoro, ci sarà pure il tuo cuore” (Mt. 6,21)
Si cercano filosofie strambe, sensazioni peregrine. Ricette e medicine per il corpo e per l’anima mai conosciute e intanto cresce l’affanno e la delusione e l’anima si avvicina al buio della morte.
Ma Dio, sapiente e furbo, ha voluto castigare i ricchi e i troppo pasciuti, che spendono e spandono credendo che la felicità sia un luogo lontano, e ha avuto pena dei poveri e dei semplici, nascondendo il tesoro in un luogo in cui non servono né denari né mezzi per raggiungerlo: nella profondità del loro cuore. E quando uno va a fondo nel proprio cuore, sotto la scala della sua anima, trova la serenità e la pace, l’armonia delle cose e il segreto dell’esistenza.
La leggenda di Sant’Alessio ci dice anche che il tesoro è rivestito d’umiltà, di cianfrusaglie e di cose che nessuno stima e che tutti irridono. Solo un occhio attento e libero e un’anima umile e non prevenuta può abassarsi a rovistare in quella miseria esteriore che è simile alla conchiglia che contiene una grande perla.
Riusciremo noi friulani, figli di questo tempo di sensazioni continue e superficiali, ad avere la fortuna di cercare il nostro tesoro esistenziale nella lingua, nella filosofia, nella storia grande e piccola quotidiana, nella memoria personale e collettiva, nella terra, nell’umiltà di un piccolo borgo o di una chiesetta, in un vecchio ritratto, o in un baule, nelle persone che abbiamo sotto il nostro tetto, nell’armonia delle stagioni e dei colori dell’anno e della vita? Ci aiuterà la Chiesa, la scuola, il mondo degli intellettuali, a cercare il nostro bene e la nostra luce sotto la nostra scala? O dovremo giungere sempre gridando dinnanzi alla morte, quando ormai è troppo tardi? Oh, Sant’Alessio!

venerdì 2 dicembre 2011

32 Radici aquileiesi


32 Radici aquileiesi

La sagra o perdono dei santi Ermacora e Fortunato, che la liturgia stabilisce essere il dodici di luglio, ci riporta a un problema di fondo non solo religioso ma anche culturale, antropologico e spirituale: il rapporto fra cronaca e storia, fra presente e passato, fra contemporaneità e memoria. Un problema che esiste da sempre, ma che nella nostra epoca involgarita, iconoclastica, materialistica, emotiva e superficiale trova sempre più importanza. Un tempo potevano anche non andare a cercare le proprie radici, perché vivevano in armonia con la storia e il territorio, in un’armonia che, se non era ideale (non esiste un equilibrio ideale di tutte le componenti dell’uomo) e a livello di coscienza, era reale a livello di esperienza.
La rivoluzione, l’accelerazione, la massificazione ha sostituito la realtà la finzione o “fiction”, e tutto è divenuto relativo e artificiale: il mangiare, il bere, il dormire, il piangere, il ridere, il partecipare, gli odori e i colori. Perfino con le piante bisogna stare attenti. Difatti ne trovi di fiorite in ogni stagione e più fuori fa freddo e più in casa è sfacciata la fioritura. Solo che non si tratta di alberi, ma di plastica, realizzata a modo d’albero.
Anche la religione è soggetta alle tentazioni e alle mode dei tempi, e rischia di prendere la scorciatoia criminale della falsificazione, con cere di plastica, con fiori finti, con candele elettriche, con suoni artificiali che strepitano per coprire il silenzio della gente.
Contro questo “disordine della desolazione” che ha appestato famiglie e paesi, case e chiese, devo andare a cercare la fontana dell’acqua genuina che gocciola dalla profondità della nostra terra e l’albero antico che ha radici profonde come i secoli e dure come la nostra storia. Tutto questo si trova in un luogo materiale e spirituale che per noi può essere un luogo ben preciso: Aquilkeia. In Aquileia il popolo friulano ha le sue radici cristiane e friulane. Senza forzature e senza dare all’ affermazione una connotazione nazionalistica o integralista, possiamo sostenere che siamo friulani perché siamo cristiani e siamo cristiani perché siamo friulani.
Se vogliamo dunque salvarci come friulani e come cristiani, ovvero se vogliamo salvare la nostra “anima” come dice il vangelo, dobbiamo compiere un pellegrinaggio che diviene uno stile di vita, una ricerca continua del nostro DNA, per donare al mondo il regalo della nostra specificità.
Si parla tanto di nuova evangelizzazione, perché abbiamo perso la tramontana. Se non vogliamo che tutto diventi una nuova colonizzazione magari con la croce, dobbiamo dare a questa parola e a questo progetto il significato di un voto corale e penitenziale, per chiedere perdono ai nostri santi Fondatori e a tutte le anime buone che hanno concimato con la loro testimonianza generosa e sofferta questa nostra terra, per ristorare la nostra anima arsa alla vecchia fontana, per sederci stanchi e delusi sotto l’ombra del grande albero, per appoggiarci a quel campanile che prolunga le sue fondamenta nella profondità della terra e del tempo e va su con la sua punta nella pienezza e nella libertà del cielo.
E con questa visione di terra e cielo, che sono le coordinate vitali per un uomo e per un popolo, torneremo al nostro vivere di ogni giorno, per scrivere un’altra pagina di storia di vita nel vecchio quaderno del Friuli.

giovedì 24 novembre 2011

31 Seduti a piangere “super flumina Natisonis”


31 Seduti a piangere “super flumina Natisonis”


Avete presente il salmo 137 (138). Quello delle scodelle appese sui salici del fiume di Babilonia e dei deportati che rispondono piangendo alle pretese prepotenti degli ignoranti: “Ma come cantare le cantiche di Jahvè in una terra forestiera?”. Perché canto terra e memoria sono un unico e non si può compiere il sacrilegio di staccarli.
È ciò che mi è venuto in mente leggendo la locandina del Centro diocesano della Pastorale Giovanile, che invita i giovani a salire su “l’arca di Hassan” (che non ho compreso cosa sia) “dalla conflittualità alla convivialità”. Qui c’è miseria di tutto fuorchè di slogans e di enigmistica.
La scheda parla dei pericoli di un estremismo raziale ed etnico. Nessuna paura. A San Giovanni al Natisone, per tre giorni, si parlerà di tutto fuorchè del Friuli, con le sue componenti etniche e culturali friulane e slovene. Dunque stiamo volando verso la luna. Inoltre si dice che stiamo perdendo il senso della memoria e si propone una terapia sbagliata. Se dovessi estrapolare, dal programma, le mie impressioni, direi che gli organizzatori,e dunque i nostri luminari pastorali, i “top”, sono provinciali e privi di cultura, intesa nel senso più profondo delle radici che ti permettono di vivere e di crescere.
Che siano provinciali lo dimostra il fatto che non hanno trovato una sola persona, cristiana o no, che portasse l’esperienza della nostra terra e della nostra storia. Proprio come la serva che indossa molti abiti forestieri per cui tutti si accorgono che è serva.
Che manchino di cultura lo dimostra il fatto, scandaloso, che non abbiano scovato una liturgia, una salmodia, una tradizione musicale e di preghiera in un patrimonio unico come quello aquileiese. In barba a un libro diocesano appena stampato e già relegato in un angolo e di una Bibbia costata anni di difficoltà e snobbata dalle centrali diocesane. Difatti la preghiera è nello stile di Taizè, con tanto di prove, e la serata musicale non la tengono su Gilberto Pressacco o Zanetti o le centinaia di cantori friulani e sloveni della nostra terra ma Eddie Hawkins e la sua band.
Ritorna, a rovescio, il salmo dell’umiliazione di Babilonia: ”Come cantare i nostri canti in casa nostra?” Scherziamo?
Stando agli organizzatori oramai il meeting si è allargato. Provengono dunque dall’Italia, dalla Lituania, dall’Ungheria e dalla Polonia. Una sensibilità intelligente avrebbe suggerito di offrire all’ospite la cosa più cara e rara che abbiamo, le nostre perle. Per il valore culturale straordinario e per il fatto che Aquileia è stata europea prima di Udine e di San Giovanni. Termino queste note con grande amarezza. A quelli di Udine direi che non si deve confondere la diversità di idee con la mancanza di idee e che non si salvano i giovani col sottosviluppo culturale. È anche un’esempio negativo per la nostra gioventù, che tutti sappiamo sradicata e disancorata. Ma se i big hanno questa sensibilità, posso lamentarmi dei miei giovani? E posso invogliarli a vivere la liturgia nell’essenzialità della nostra tradizione, nelle nostre povere chiese, se quelli che sono a capo sono i primi a sbefeggiarla?
Spero dunque che la mia gioventù preferisca andare a sagra in qualche paese, con salsiccia e batteria. Almeno sanno di non aver compiuto una grande impresa e non si illudono di prendere l’indulgenza, come a San Giuovanni.
Per quanto mi riguarda, non mi sento di onorare una Chiesa che non onora la mia terra e la mia storia.

giovedì 17 novembre 2011

30 A un pievano squinternato


30 A un pievano squinternato


Come per la maggioranza dei preti, il 29 giugno mi riporta al duomo di Udine, dove 29 anni fa sono stato consacrato. Quanto tempo è trascorso e che rivoluzione da allora!
Non è che mi sia pentito di quella scelta, ma ho avuto molta delusione là dove avevo riposto la mia sperenza e tante soddisfazioni là dove non m’illudevo di trovare nulla. In quel giorno ho offerto al Signore la poesia ingenua della mia gioventù. Accetti ora, con lo stesso cuore, la prosa della maturità, meno esaltante ma più vera anche se con una punta di amaro.
La maggioranza dei preti, tutti entusiasti e intenti a programmare la nuova evangelizzazione in vista del 2000, non se la prenderanno se per una volta dedico queste mie povere note a un prete squinternato, deluso, disorientato, disperato, abbandonato dal vescovo e da gente che dubita che anche il Signore l’abbia cancellato dal suo libro. Ce ne sarà uno, in tutta la diocesi!
So che la gerarchia ha il terrore che si parli di questo argomento. Difatti una velina del consiglio presbiteriale diceva che non si deve usare la parola “disagio” ma “malessere”. Il “disagio” lascia sospettare una crisi seria e profonda, obbiettiva, mentre il “malessere” ti fa pensare a un senso di “vaga sofferenza”che dipende dal prete e da cui se ne può uscire pregando maggioremente e frequentando più spesso la forania.
Ma quell’ amico, di cui parlo, la pensa in maniera diversa ed è convinto che il male è a monte. È andato in crisi perché è in crisi tutta la baracca. Difficile dargli torto.
Se al mercato di Codroipo tutti saltano la tua bancarella, e vanno ad acquistare da altre parti, non puoi ascigartela pensando che siano tutti stupidi e solo tu svelto. Non si può sempre pensare che le persone siano stupide, ignoranti, egoiste, carogne, in torto e che solo noi siamo sempre svelti e in ragione. Per dirla tutta non è il mondo in crisi ma è la Chiesa che ha perso in splendore e in trasparenza e la gente stenta a vedere il volto di Cristo, il riflesso di Dio e il riflesso dell’uomo.
Al prete col cuore gonfio suggerirei di salvarsi abbandonandosi nelle braccia del Dio che perdona ma anche riprendendo, per il tempo che gli rimane, un’umanità perduta o combattuta per troppi anni. Faccia il prete a modo suo, per dare il meglio di sé. Poi gli direi: “Non fare mai guerre di religione, perché sono le più crudeli e stupide. I principi sono buoni ma le persone sono più importanti. Non litigare con la gente della tua parrocchia a causa del vescovo. La gente è carne della tua carne e il tuo sangue. Non aspettarti umanità dalle istituzioni. Il comune non può essere umano; di grazia che sia umano il sindaco. Se non riesci a leggere le circolari ecclesiastiche con serenità o ironia, cestinale.
Accetta le persone e loro ti accetteranno; accettati e accetterai anche la gente. Tu guardi il paese dalla chiesa e la popolazione guarda la chiesa restando nel paese. È tutta un’altra prospettiva. Così la maniera di pesare i fatti e la vita. Non arrabbiarti se la domenica la gente non si alza compatta per recarsi a messa. Loro non si adirano il lunedì, quando vanno al lavoro e tu rimani nel letto. Non parlare col gatto e col Signore più che con i paesani e piuttosto di rimanere solo in chiesa con la tua ragione siediti fuori con la massa dei poveri e dei falliti. Perché la corriera che passa a raccogliere i falliti per condurli nel Regno attraversa la piazza e anche l’Autista nella sua vita ha subito il fallimento.
Il progetto di Dio è più grande e misterioso di quello della Chiesa e dinnanzi a lui le nostre vittorie valgono quanto i nostri fallimenti. Niente. Quando ti senti abbandonato, pensa ai tanti genitori che raccolgono quanto te ma che hanno dato molto di più”.

giovedì 10 novembre 2011

29 Il regalo della gatta


29 Il regalo della gatta

Da molti anni ho il vizio di utilizzare le ore silenziose della prima notte per leggere, buttare giù qualche idea, fare un po’ di bilancio sulla mia misera vita e su quella non sempre esaltante del mondo e di pensiero in pensiero il tempo vola via. Nessuna meraviglia che all’alba tenda a rimanere nella cuccia. Ma ho rimediato bene con una sveglia che mi entra nel cervello fino a che non do segno di vita. Per svegliarmi più velocemente, balzo giù dal letto. Cosa che ho fatto anche l’altro ieri. E si è sentita per tutta la casa un grande urlo, perché, mettendo il piede sul tappeto, ho trovato la sorpresa, fresca di giornata.
La Grigia che aveva navigato tutta la madre notte in giro per i segreti della mia canonica secolare, aveva trovato fortuna e aveva voluto spartire con me il suo tesoro. Anzi, aveva voluto donarmelo, a me che non mi risparmio in niente per far felice, lei e le altre bestioline del mio harem.
Così per la fretta e per il sonno, ho messo il piede proprio sul topolino, mentre la Grigia mi guardava con gli occhi lucenti.
La mia prima reazione è stata quella di adirarmi, come se mi avesse fatto un dispetto. Perché se la gatta non può ricambiare il mio affetto con una cosa di mio gradimento, come un libro, o un fiore, almeno non mi porti vicino cose che mi fanno ribrezzo.
Ma la gatta mi guardava con tanto orgoglio che non potevo sospettare una sua cattiveria nei miei confronti. Anzi lei, poverina, ha voluto privarsi di una cosa per cui le piangeva il cuore, pur di rendermi contento. Non sempre si può regalare ciò che vorrebbe l’altro e, nell’accettare un regalo, si deve pensare anche al valore e al peso che rappresentano per chi lo fa.
A proposito, cosa porta vicino un figlio a una madre? Forse vorrebbe colmarla di mille attenzioni e regali, ma spesso la realtà è più scalognata. Difatti solitamente il figlio ritorna vicino con i panni sporchi, da rammendare, con qualche nota da scuola o fuori, con qualche sbucciatura sulle ginocchia se è piccolo e con qualche ferita nel cuore se è grande. La madre avrebbe tutto il diritto d’attendersi un regalo più bello, ma per il grande affetto che la natura le ha fornito, sente già come un dono il fratto che sia ritornato da lei a piangere sul suo grembo o appoggiato alla sua spalla. Peraltro, può un figlio regalare qualcosa a colei che le ha donato il più grande fra i regali, la virta e l’affetto?
Stesso discorso, ma più elevato, vale per il Signore, dato che siamo nel mese del Cuore di Gesù.
Cosa può donare un povero verme della terra a colui che possiede la ricchezza, la profondità, l’altezza, la pienezza?
Per un periodo di tempo nella Chiesa è stata di moda l’usanza di confortare il Cuore di Cristo. Mi è sempre sembrata una stupidaggine o una bestemmia. Posso io confortare il Conforto? Rendere contenta la Contentezza? Glorificare la Gloria? Sarebbe come pretendere di scaldare il sole. Se mai è lui che scalda noi.
“Regalami il tuo topolino, che ho sufficiente pazienza”, dice il pievano di Basagliapenta alla sua gatta pazzerella.
Regalami i tuoi fastidi e le tue lacrime, che ho sufficiente amore e cuore” dice la madre al figlio mortificato.
“Regalami i tuoi peccati e i tuoi fallimenti, che il mio non è perdono e pace” dice il Signore all’uomo disperato.
Tre gradi di affetto, tre scalini, uno più alto dell’altro, e l’ultimo è così alto che è avvolto di tenebre e di mistero.

martedì 8 novembre 2011

28 Il santo degli strambi


28 Il santo degli strambi

Potevo mai dimenticare san Giovanni Battista, per gli amici “san Tite”? La sua festa,ricorre giusto sei mesi prima del Natale. È legata da sempre al solestizio d’estate, con i fuochi, col mac e le cidulis. Per non parlare delle “luci di San Giovanni”. A Venzone abbiamo una chiesa, spettacolare anche se diroccata a causa del terremoto, in cui ha predicato anche Martin Lutero. È il titolare della comunità di Trelli, dove ho esercitato da prete e maestro, e mi hanno regalato la sua statua per ricordo. E soprattutto è il più grande fra tutti i nati da donna (Mt. 11,11).
Un dirigente catechista diocesano, predicando su san Giovanni, lo ha definito “un santo equilibrato”. È evidente che è squilibrato l’oratore, perché se esiste un santo strampallato, è proprio lui. Nato da genitori già anziani, ha fatto penare tutti già prima di nascere e appena nato, col padre trasformato in cantautore del “Benedictus”. È cresciuto in maniera selvatica, al di fuori del consorzio umano, con una fascia di peli di cammello a fasciragli le reni e un mangiare intonato allo stile del soggetto: miele selvatico e cavallette. Quando ha iniziato a predicare, invece di scegliere un luogo frequentato, come una città o un tempio, ha preferito un luogo solitario, come sarebbe un bosco su in Carnia, a uso un menaàu. E difatti a quei pochi che lo avvicinavano, parlava di mannaie e di ceppi.
Col trascorre degli anni, non è cambiato. Ha taciuto solo quando una giovane ballerina, con le sue grazie, si è fatta promettere da Erode la sua testa su un piatto. Eppure era un profeta, anche più grande di un profeta: il messo e precursore del Figlio di Dio.
Anche Cristo era strambo. Difatti attaccava il tempio, difendeva l’uomo a scapito della legge, affrontava i grandi, i preti, definiva fortunati i poveri, gli afflitti, i puri di cuore, i misericordiosi, quelli che operavano per la pace e le vittime di ogni prepotenza. Inoltre sosteneva che non si può servire Dio e il denaro e che gli ultimi erano i primi e che i primi erano ultimi.
Cristo, il suo precursore e i suoi discepoli non possono fare cordata. Perché sono strambi, sballati, radicali e pericolosi. Un pericolo costante perché portano l’”ordine” di Dio, che rappresenta il disordine per gli uomini, a scapito dell’”ordine” degli uomini, che coincide col disordine per Dio.
Perché la religione cristiana, da secoli (diciamo dal 313, con l’editto di Costantino che l’ha proclamata religione di stato), non è più considerata un pericolo mortale per l’”ordine” dei potenti? Perché la Chiesa ha trovato nel mondo più ordine di quanto ne avrebbe avuto. Addirittura l’ha aiutata a sistemare la mano al braccio secolare per difendere un ordine che non poteva essere quello di Giovanni e di Cristo. È riuscita a trovare (Dio li perdoni!) lo stesso criterio di ordine e di disordine, cacciando o confinando gli strambi, secondo il mondo ( Hus, Lutero, Bonaiuti, don Milani, pre Checco, Boff), invece di onorarli e cacciare quelli che erano in fila con i potenti. La Chiesa è disordine e dinamite o non vale nulla. Vi immaginate San Giovanni in cravatta nel più lussuoso ristorante di Udine a profetare fra un bicchiere di vino e l’altro?
Un giorno mi sono ritrovato in curia, per non fare il viaggio inutilmente ho litigato con il cancelliere Pecile. Mi ha detto:”Tu hai l’equilibrio instabile”. “Può darsi – ho risposto – Però è sempre preferibile a “uno squilibrio stabile”. La Chiesa, per essere sempre equilibrata con gli uomini, rischia d’essere sempre squilibrata con Dio. Per me, mi accontenterei di non assomigliare a San Giovanni solo nella stramberia ma anche nella santità. Soprattutto d’essere come lui, “testimone della luce” (Gv 1,8)

giovedì 27 ottobre 2011

27 Il miracolo dell’ordinario


27 Il miracolo dell’ordinario

La Chiesa ha una sua scansione delle gionate e una sua divisione dell’anno, che non corrispondono a quelle del calendario civile. Questo per il fatto che il suo principio costitutivo e le sue fondamenta sono differenti. Altrimenti cosa portrebbe dare in più all’uomo?
Nella sua sapienza pedagogica, ha voluto sottolineare le diversità di “stagioni” con una diversità di colori, di canti e di letture. E per il periodo che inizia al termine delle solenni feste, che corrisponde al nostro feriale, ha scelto un nome e un colore: il tempo “ordinario” e il colore verde.
Il colore verde mi piace perché mi richiama il colore del frumento e dell’erba che crescono e delle colline che si avviano verso la pienezza della stagione. Tempo di speranza e di crescita, come ogni tempo in cui si semina.
Mi piace meno quell’”ordinario”, che solitamente immaginiamo come comune, volgare, scadente. E difatti per salvarci dall’ordinario, andiamo in cerca dello straordinario, il clamoroso. Preferisco però cercare un'altra etimologia, più seria. “Ordinario” lo faccio derivare da “ordine”. Non quell’ordine che ti impongono con la prepotenza e che solitamente nasconde un disordine, ma quell’ordine che è un’esigenza fondamentale, intrinseca della vita.
Non penso alle leggi degli uomini ma alla legge della natura, che richiede continuità, precisione, regolarità. Come il battito del cuore, come il sorgere del sole, come lo schiudersi dei fiori, il battere ribattere delle onde del mare contro la riva.
Visto così, questo tempo è il più importante della vita: è quello che ci permette di vivere e di crescere, per cui lo straordinario non ci porterebbe al futuro. Se dunque l’ordinario è la regola, lo straordinario è l’eccezione. E l’eccezione vale meno della regola. Perché non giungiamo anche noi a questa sapienza e fortuna di meravigliarci di fronte all’ordinario, al consueto, che ci permette di vivere, invece di sbeffeggiarlo per andare a cercare un’evasione inutile e pericolosa? Allora ogni terra diventa santa, ogni chiesa diviene un santuario, ogni messa è grande, il viaggio più importante è quello del cuore e ogni piccolo accadimento diventa un “miracolo”, una meraviglia, una novità. Ma una novità nella continuità.
È più “straordinario” preparare da mangiare quotidianamente che non una volta l’anno, recarsi a messa ogni domenica che non nelle grandi occasioni, guardare il sole dalla finestra che non andare a guardarlo in Africa, andare in fabbrica o in ufficio che non in crociera, far crescere un mazzo di fiori nel tuo orto o sul tuo terrazzo che non acquistare cose esotiche.
Questo lo sa e lo vive ogni genitore, ogni lavoratore, ogni curato di paese, ogni sacrestano, perciò sono straordinari e meriterebbero un monumento o almeno maggior attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, divenuti mezzi d’invasione e dunque né intelligenti né vitali.
Il tempo ordinario mi fa pensare alle fiamme del fuoco, ai fiocchi di neve e alle gocce di pioggia. Tutte realtà che sembrano ripetitive e invece sono eterne novità.
Anche i momenti della vita sembrano uguali, come gli anelli di una catena. Eppure ognuno di loro è unico e irripetibile. Prolungare la novità fino all’ultimo giorno sarebbe il segreto stesso della vita. Una strada c’è ed è sicura: quella dell’amore. Una madre e un’amante ripetono le stesse parole e gesti senza stancarsi né stancare. Quando si stancano o stancano, significa che l’amore è andato sbiadendo e senza amore tutto sa di vecchio e di morto.

giovedì 20 ottobre 2011

26 Il “mondo” del vangelo non è il paese


26 Il “mondo” del vangelo non è il paese


“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me”. “ Non ti chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che tu li guardi dal maligno”. (Gv 15,18 17,15).
Non è colpa mia se leggndo durante il periodo pasquale questo pezzo, il pensiero mi corre agli anni della “formazione”, con le prediche “sullo spirito del mondo che fa a pugni con lo spirito di Cristo”, e con i deliri sul “secolo” e sui “secolari” o “mondani”. Non hanno mai parlato di “mondana” perché lo ritenevano troppo pericoloso per noi, ma per loro il mondo era proprio questo: una grande casa di prostituzione. Naturalmente erano mondane anche mia madre e mia nonna, che nella loro esistenza, hanno solo lavorato e patito.
Da una parte dunque il mondo sacrale, l’”hortus conclusus” o giardino chiuso che non poteva permettersi di lasciare aperta nemmeno una fessura altrimenti entrava “lo spirito pestifero del secolo”, e dall’altra parte il mondo di Satana, in cui le persone avevano una sola preoccupazione: peccare dalla mattina presto fino a notte fonda, soprattutto di notte, per andare carica e pasciuta a ca’del diavolo. E questo partendo dal vangelo col suo discorso sul “mondo”.
Nessuna meraviglia che questo modo di interpretare il vangelo, a maiale via, i preti l’abbiano portato anche nella vita pastorale, con tutte le conseguenze tragiche di una pastorale stupida e prevenuta; in ogni caso sballata, perché nasceva da un’esagerata concezione di sé come anime elette e da una disistima immeritata della gente che non poteva che finire condannata.
“Discorsi di cinquanta anni fa” si dirà. Invece sono discorsi che regnano anche oggi. Per il fatto che i preti, dato che si sentono in ragione, difficilmente accettano di cambiare idea. E anche per questioni anagrafiche, perché la maggioranza dei preti ha la mia età o è più anziana. Se si potesse fare il ragionamento partendo dalla cima del mondo clericale e gerarchico ne vedremmo delle belle. Eppoi basta ascoltare i loro proclami ufficiali e non.
E le nuove leve? A parte che sono un’infinitesima minoranza, anche loro, forse più dei vecchi, si sentono investiti dalla missione di salvare il mondo dall’incredulità, dalla sporcizia, dal consumismo, dal materialismo, dall’edonismo e via di seguito. E si sentono veramente “alternativi” al mondo.
Un atteggiamento che sarebbe evangelico se l’idea di “mondo” del vangelo fosse la stessa dell’apparato clericale. Il mondo del vangelo invece non è il nostro mondo, quello della nostra gente. Il “mondo” del vangelo è il mondo della prepotenza, della violenza, della rapina istituzionalizzata, dell’oppressione, della bugia, della religione usata per tamponare le porcherie, dell’ordine usato per nascondere il disordine. In una parola è il vero “regno di Satana”, che non risparmia nemmeno le istituzioni ecclesiastiche se diventa prepotente o mistificante.
La nostra gente non rientra in queste categorie, non è “mondo” ma vittima. Per questo va guardata con simpatia, con umanità e comprensione, compresi i giovani che frequentano le discoteche, prime vittime di un “mondo” che li acceca, l’instupidisce, li adopera e li tradisce. Cristo, che ha coordinato il “mondo”, ha pena delle folle, delle persone dei borghi e dei paesi, perché erano “ stanche e abbandonate come pecore senza pastore” (Mt. 9,36).
In questa prospoettiva va letto anche l’”odio” del mondo verso i discepoli di Cristo. Se un prete è odiato dal “mondo” del vangelo, come Romero e altri martiri, può anche lodare Dio. Ma se lo odiano le persone del paese, è meglio che si faccia un buon esame di coscienza.

venerdì 14 ottobre 2011

25 Un pane grande come il mondo


25 Un pane grande come il mondo

QUESTO DOVEVA COMPARIRE LA SCORSA FESTA DEL CORPUS DOMINE

Il calendario, con le sue feste, mi riporta agli anni della mia infanzia, a quelle grandi processioni del Corpus Domine che trasformavano per un giorno Venzone in una chiesa, meno artistica ma sicuramente più viva del Duomo. E il Signore passando, guardava le nostre povere case fatte di sassi tenuti vicino dalla miseria, dove non avevano chissà che croci appese ai muri ma tante che camminavano o a gatto o con il bastone. Poi guardava i fiori che mia madre aveva portato giù da Plauris, di una bellezza unica come unica era stata la fatica per andarle a prendere prima di giorno. Il pievano si fermava nel Cjanton e appoggiava il Santissimo su una lunga tavola con il copriletto nunziale, carico di anni e di storie. L’adoperavamo da generazioni per ribaltare la polenta, per ammazzare il maiale e per preparare i nostri morti al viaggio da cui non si torna. Lì sopra non stonava il pane della Vita, perché era legato con il pane del lavoro e del dolore e della vita di quaggiù.
Una religione legata alla vita non stonerà mai, come non stonerà una vita illuminata dalla religione e meglio ancora, dalla fede.
In quegli anni, in cui non si metteva in dubbio il diritto espotic della religione di sacralizzare tutto, non si faceva attenzione se la Chiesa allargava la sua padronanza sul paese senza però portare il paese in chiesa. Oggi le cose sono cambiate. Se in meglio, o in peggio, dipende anche da quale parte si guardano. Ma è cambiato l’impianto di base. Il sacrale è andato in crisi quando non ha saputo trovare risposte nuove alle nuove situazioni e quando il mondo ha acquisito dignità pretendendo di andare avanti con regole sue e con una sua autonomia.
In quel momento le strade si sono separate e, come succede dopo le lunghe convivenze, si è esagerato in disistima ciò che prima si esagerava in stima. Così abbiamo una chiesa senza persone e una gente senza chiesa; una messa senza storia e una storia senza messa. Come avere il corpo da una parte e l’anima dall’altra. Chiese vuote e cuori vuoti. Una tragedia.
Eppure durante la messa, quando il prete prende in mano quella particola a forma circolare che dovrebbe essere pane, dice: “prodotto dalla terra e dalla nostra fatica”. Se le parole hanno un senso, quel “pane” che diventerà il Corpo del Signore, è prodotto da tutte le fatiche, lacrime, speranze e tragedie degli uomini. Più che formato da chicchi di frumento io lo vedo formato da granelli vivi, da persone di ogni età e condizione che con il loro sudore preparano la materia del grande sacrificio.
Allora l’altare si amplia per quanto è grande il mondo e per quanto è lunga la storia e tutto diventa un grande offertorio e la nostra umanità, la nostra storia, vengono innalzate perché lo Spirito le trasformi in un tutt’unico con il sacrificio di Cristo. In questo senso nessuno è tagliato fuori dai benefici di quel Corpo e di quel Sangue offerti “per tutti”.
Ma io andrei a raccogliere prima di tutto i granelli macinati nel mulino della prepotenza, le vittime dell’ingiustizia degli stati, delle Chiese, delle guerre, delle economie, delle ideologie, delle falsità, tutti i profeti e i martiri morti senza onori e magari senza speranza, granelli che marciscono sotto terra per far germogliare la nuova pianta di una nuova umanità.
L’angelo del Signore, che porta sull’altare del cielo la nostra offerta, vada ad ammucchiare questi granelli ovunque siano sotterrati e dimenticati. Sono loro, assieme a Cristo, il vero pane della vita, che ci permette di guardare al futuro ancora con speranza.


giovedì 6 ottobre 2011

24 Uno Spirito fantasioso e rispettoso


24 Uno Spirito fantasioso e rispettoso

QUESTO DOVEVA COMPARIRE LA SCORSA FESTA DELLE PENTECOSTE



Pentecoste, o altrimenti detta Pasqua delle rose, grande appuntamento liturgico per fare memoria della rivoluzione operata dallo Spirito Santo sugli apostoli, trasformati da rinnegatori a testimoni e da conigli a leoni.
Lo Spirito Santo è un dono del Padre al mondo per il Figlio ritornato in gloria. Si potrebbe anche chiamarla “forza del Padre”. Però bisogna dire che scaturisce “dal Padre e dal Figlio”, per giustificare la lite sulla “Filioque”, che ha provocato lo scisma fra la Chiesa d’Occidente e quella d’Oriente ancora nel 1054. Chissà se lo Spirito Santo, che è lo Spirito di unità, è stato contento che il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli si sono tolti il saluto per difenderlo? Ma ha bisogno d’essere difeso, lui che fa per professione l’avvocato, il “Paraclit”?
Lo Spirito Santo è il grande Sconosciuto, una sorta di “milite ignoto”. Ovunque, e quindi anche in Friuli, si studia a dottrina per avere la cresima, o l’orologio in occasione della cresima. Credo che però nemmeno la Chiesa in realtà sappia cosa veramente sia lo Spirito. Altrimenti avrebbe intrapreso tutt’altro aspetto e un sentiero diverso.
Leggendo il cap. 2 degli Atti degli apostoli, si rimane colpiti dagli effetti “devastanti” che lo Spirito ha prodotto: sussurri come un vento forte, sussulti come fosse un terremoto, fiamme sparse, gli apostoli che iniziano a delirare in lingue diverse… Insomma non avevano tutti i torti i curiosi che dicevano: “ Che grandi robe!”, e nemmeno quegli altri più materialisti e cinici, che sghignazzavano : “Questi sono ubriachi fradici!”. Perché erano proprio spiritati. Tutto al contrario di come se ne esce dalle nostre cresime: sbadigliando e con un grande languore nello stomaco.
Credo che la Chiesa sia troppo puntigliosa e ripetitiva e un po’ noiosa per rievocarci lo Spirito che l’ha fondata. Se lo spirito è spirito, non si può racchiuderlo in una bottiglia o in una stanza e in un libro o in una struttura. L’idea di Spirito che si ricava dal pezzo di Luca è quello di uno Spirito fantasioso, che si diverte a sovvertire tutti gli schemi e i confini del perbenismo perché ognuno possa in libertà sfogarsi con i doni che Dio gli ha dato.
Uno degli slogan più belli del Sessantotto era: “La fantasia al potere”. Non so quanta ne abbiano avuta quelli che l’hanno proposto. So però che era azzeccato e sarebbe stata la grande novità di quella stagione.
Uno Spirito fantasioso dunque. Ma anche rispettoso. Difatti tutti i popoli che si trovavano in quei giorni a Gerusalemme, la lista che li riporta è lunga, sentivano e comprendevano ognuno nella sua madrelingua. È questo il miracolo caratteristico della Pentecoste: la legittimazione che lo Spirito dà a ogni popolo di lodare Dio nel rispetto del suo clima naturale e culturale. E non ci siamo nemmeno su questo punto. Perché in tutte le chiese della cristianità per secoli e secoli si è letto questo pezzo contradicendolo mentre lo si cantava o leggeva. In comunità come le nostre, dove le persone parlano da secoli in friulano, in sloveno e in tedesco non si può parlare di “madrelingua” in latino (e ora in italiano) senza perdere almeno la faccia. Per rispetto e onore di quello Spirito che ci rispetta e onora.
Non basta leggere il pezzo della Pentecoste o indossare la pianeta rossa per meritare lo Spirito delle Pentecoste. Se poi cerchiamo anche di ingabbiarlo nella gabbietta, allora la frittata è completa.

mercoledì 28 settembre 2011

23 Croce di Carnia


23 Croce di Carnia


QUESTO DOVEVA COMPARIRE PER LA SCORSA FESTA DELL'ASCENSIONE

Si può, in occasione della festa dell’Ascensione, non andare col pensiero a un momento unico, il bacio delle Croci, in quel luogo unico per fede, per cultura, per storia che si chiama San Pietro in Carnia?
Gli avi hanno ritenuto che nessun luogo non era più adatto a riprodurre anche visivamente il mistero dell’Ascensione, come il punto più elevato di contatto fra il cielo e la terra. Peraltro, se uno deve staccarsi da questa valle di lacrime, si innalza il più possibile, per dopo volare nella libertà infinita di Dio.
Da secoli i carnici hanno voluto accompagnare questo mistero con la grande Rogazione, che parte da tutte le chiese dei canali per l’appuntamento sul Piano della Vincola, piano di fraternità. Rogazione che riproduce, come un una sacramento, la storia di questo popolo forte e gentile, generoso e sfortunato. Potevano scegliere un simbolo più adatto di quello delle croci? Croci infiocchettate, ingentilite, ma sempre croci.
Carnia avara e amara. Carnia benedetta da Dio per le sue ricchezze e bellezze ma tradita dagli uomini con le loro rapine d’acqua, di verde, di legno, di gente, di risparmi, d’ingegni, di tutto. Celebrando in questi giorni la festa della mamma, si deve pensare a questa grande madre ricca di anni e di dolori, di pazienza e di fortezza, dura come le rocce, con la pelle ruvida dei suoi alberi secolari che hanno dovuto affrontare ogni sorta di traversie e d’intemperie.
Il Friuli deve rendersi conto che uccidendo la Carnia si suicida. Se si tagliano le radici, l’albero muore. Se si prosciuga la vena, la fontana non dà più acqua. E la Carnia è radici, sorgente, maestra e madre. Non abbiamo il diritto di trascurarla, dopo tutto ciò che ci ha dato. Sarebbe un delitto di ingratitudine. Non possiamo ucciderla. Sarebbe un delitto di stupidità.
In un mondo disorientato e disarmonico, la Carnia resta ancora un esempio di armonia fra l’uomo e la natura, fra passato e presente. Solo in Carnia si possono trovare odori veri e colori genuini e dissetare la sete dell’anima. In Carnia le chiese hanno tutto l’aspetto di case e le case assomigliano a chiese e il parlare delle persone è litania, armonia, lamento e canto.
Ciò che non posso perdonarmi e perdonare è che questa gente, che ha resistito in periodi di grande stremo, sta morendo nel momento relativamente d’abbondanza. C’è qualcosa che non quadra.
Una volta un politico carnico, democristiano, mi disse: “ Ma conviene allo Stato mantenere luoghi come Rivalpo, Valle e Trelli?”. A parte la carognità cinica della domanda e il fatto che i nostri paesi di montagna, comprese le valli del Torre e del Natisone, si sono mantenute da sole e inoltre hanno mantenuto gli altri, perché non vi poniamo la domanda contraria: “Conviene allo Stato mantenere i letamai di Roma, di Napoli, e di altri luoghi, che succhiano cielo e soldi e producono solo corruzione e violenza?”,
lo Stato è giunto fin quassù solo per riscuotere e rubare, dividendo i debiti e mai i crediti. Una cosa vergognosa. Ma ciò che dispiace di più è che la nostra Chiesa friulana non ha saputo né voluto fare di meglio. Difatti, mentre la gente si estingue e i preti sono diventati una rarità, quelli delle tasse arrivano puntuali a riscuotere i soldi per le immondizie anche se non hanno portato i cassonetti e la centrale diocesana, per non essere da meno, continua impassibile a riempire le buchette delle canoniche vuote con pacchi di piani e progetti non meno vuoti e patetici.
Se non vogliamo aiutarli, lasciamoli almeno in pace.

giovedì 22 settembre 2011

22 Il mistero della madre


22 Il mistero della madre


QUESTO DOVEVA COMPARIRE PER LA SCORSA FESTA DELLA MAMMA

Il mese di maggio, ci riporta, almeno a quelli delle generazioni –anta, un po’ di nostalgia delle funzioni, dei canti, dell’allegria, dei dispetti del mese della Madonna, tanto che si è parlato della Madonna e non sempre a proposito!
Ma questo mese ci richiama anche un’usanza non liturgica, ma non meno significativa e bella: la festa della mamma, madre come la Madonna, ma che differenza di trattamento tra l’una e l’altra! Per dover esaltare la madre del Signore anche dove non era necessario, non hanno avuto economia nell’infierire sulle madri degli umani, rimaste sempre e solo figlie di Eva la peccatrici. Difatti Maria ha solo virtù; le donne hanno solo difetti. Una cosa sballata.
So che il discorso sulla madre è stato condizionato da una retorica sentimentalistica e banale oltre che strumentale. Dire che la reazione specularmente esagerata ed esasperata dei movimenti femministi, che hanno gettato via anche ciò che non andava buttato via: la grandezza della madre e il suo mistero.
Naturalmente il discorso vale anche per il padre, troppe volte tenuto di complemento come san Giuseppe, ma la nostra cultura, tradizione e la necessità hanno riversato sulle spalle delle nostre donne, il peso intero della famiglia e dei figli, con tanto peso e poca gloria. Peso che se una volta, era economico, oggi è tanto più complicato e difficile.
A detta di quelli che vanno urlando stupidamente sulle madri “moderne”, prive di principi, senza religione, tutte consumismo e materialismo, preoccupate solo di rovinare il “pargolo”, direi che allevare un bambino oggi è più difficile che una volta. Perché un tempo si aveva una specie sola di problemi, crudi ma limitati. Oggi invece sono infiniti, come le soluzioni della vita, e in più manca un punto di riferimento preciso d’ordine morale, religioso, pedagogico, culturale e l’illusione di un contraccambio. I bambini devono essere aperti e riservati, esperti e sospettosi, devono avere soldi e libertà ma nella giusta misura ….
E giù tutti a consigliare, a fare prediche e conferenze, a insegnare un mestiere che non si può mai insegnare perché ogni bambino è una novità e dunque richiede ai genitori, nuovi anche loro, di percorrere con coraggio e fantasia strade nuove.
Ho cercato di ricordare questa massima: che neanche la madre più cattiva non ha piacere di avere figli maleducati.
Anche perché il peso maggiore lo avrebbe lei, non il prete e il maestro, inoltre non si deve mai insegnare dove ne sanno più di noi e soprattutto non devono parlare quelli che non hanno competenza. Questo vale soprattutto per i preti, che dovrebbero tacere. Io non ho mai tenuto conferenza alle madri. Anzi, dico loro: “insegnatemi voi, in maniera che vi possa aiutare”.
Pensando a una madre, a ogni madre, il pensiero mi vola a Cristo buon Pastore e a Dio. Ce ne sono tante sulla terra, sono le sue tracce. Una orma straordinaria è il cuore della madre, condannato a dare senza pretendere e senza presentare il conto, a non essere mai stanco, stufo, gonfio, prosciugato. Noi, che esaltiamo la grandezza di Dio, perché non esaltiamo la grandezza di una madre e non abbiamo pena del suo cuore martoriato e riguardo nei confronti del suo mistero?
Per ogni madre, che conosco, e per tutte, chiedo il dono della pazienza, della fortezza, della speranza e dell’ottimismo. E chiedo loro una cosa che si può domandare solo a Dio: il dono del capire e del perdonare. E nessuno si arrabbierà se, insieme con le madri, anche se a un gradino più basso, metto la mia cagnolina, requie, le mie gatte e le mie canarine, tutte impegnate a prolungare il miracolo della vita.
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venerdì 16 settembre 2011

21 La terra: culla e madre


21 La terra: culla e madre

N.B. QUESTI POST E I SUCCESSIVI (DAL 21 AL 35 PER LA PRECISIONE)
DOVEVANO COMPARIRE TEMPO ADDIETRO
MA A CAUSA DI PROBLEMI TECNICI CIò NON è STATO POSSIBILE.
QUESTO DOVEVA COMPARIRE IL 25 APRILE SCORSO


A Spadolini il 25 aprile ricorda la festa della costituzione, al mondo della Resistenza la festa della liberazione. Io sono un po’ più prosaico: mi accontento di ritornare col pensiero alla rogazione di San Marco, quando si partiva dal duomo di Venzone alle sei di mattina e ci si inerpicava sul Piano di santa Caterina accompagnati dalla rugiada, dall’aria frescolina che ti faceva aumentare ancor di più, se fosse stato possibile, la fame, e dalle schiere dei santi invocati intonando le melodie aquileiesi più solenni perché pregassero con noi il Signore di preserevarci dal fulmine e dalla grandine, dalla peste, dalla fame e dalla guerra, dal flagello del terremoto e di darci ancora una volta i prodotti della terra. Anche a Rivalpo e a Trelli ho fatto le rogazioni, anche se i prati erano ancora indietro. Quaggiù non le ho celebrate perché avremmo solo sfidato le automibili nel traffico indiavolato sulla Pontebbana. Le rogazioni sono una cosa sacrosanta, ma devono avere una cornice adeguata.
Rimane il problema, tutto intero, della primarietà della terra, dell’importanza vitale e pedagogica di un rapporto positivo con il mondo naturale.
Non dico che la religione possa fiorire esclusivamente nel mondo contadino o solo nei paesi. Ci mancherebbe! Dico però che la civiltà contadina è la più intonata al mondo religioso. Dirò di più. In un contesto agricolo si è religiosi anche se non si frequenta la messa; in un contesto di industrializzazione forzata, si rischia di non essere religiosi nemmeno in chiesa. Perché la religione, che ha il compito di farci sentire la presenza di un Dio che non si vede, deve ricorrere al sacramento, al segno, e la terra è tutta un segno. Ed essendo che ogni sacramento è inadeguato a mostrare il mistero, io preferisco i sacramenti “naturali” che mi “ricordano” di più.
In questo senso è più facile sentire la pasqua in un prato e in un orto colorati di vita, che non in una chiesa dove si cambia solo il colore della tovaglia. Così il mondo naturale è spesso più “chiesa”, luogo di Dio, che non un povero e freddo edificio materiale.
A contatto con la terra, l’uomo si sente grande nel seminare e piccolo nel dover attendere una nascita che non è solo sua. Da qui un senso di umiltà che non lo umilia, di pazienza che non lo scanna e di sapienza che può fargli solo del bene. Perché la terra è sapienza, storia, filosofia, arte, scuola, chiesa. In un tutto unico armonico, che è ciò di cui più necessittiamo oggi.
La terra è madre e culla. Una madre generosa, che dà tanto di più di ciò che prende. Una culla che non dimentica mai un semino, per piccolo che sia. Inoltre è un’orologio preciso per ogni stagione e per ogni pianta. Io posso dimenticarmi dove l’ho seminato, ma non la terra. La terra è segreta e discreta. Ciò che gli consegni, lo conserva con grande delicatezza, nascondendolo agli occhi curiosi e indiscreti. E nasconde con la stessa attenzione il tesoro più prezioso e il semino più umile, senza distinzioni.
La terra, che nutre la nostra generazione, tiene conto anche del nostro passato. Difatti gli uomini hanno consegnato alla terra non solo la loro vita ma anche i loro morti. Come sementi per l’eternità. Ogni seminare è un atto di fede. Ma nel consegnare alla terra madre, buia e tomba questo seme particolare, la fede raggiunge il suo apice più alto e gratuito.
Il popolo friulano ha sempre avuto un rapporto vitale con la sua terra. Se lo conserverà, avrà la più grande briscola per un avvenire sereno e sicuro.

sabato 13 agosto 2011

20 Signore, mandaci tante vocazioni, ma con i pantaloni


20 Signore, mandaci tante vocazioni, ma con i pantaloni.



Con la domenica del Buon Pastore la Chiesa si mobilita per chiedere al padrone del campo di mandare lavoratori per il suo raccolto (Lc 10,2). Ho fra le mani la lettera del rettore Goi e la novità rivoluzionaria consiste nelle bambine zaghetto ma senza illusioni di carriera e non posso non ritornare col pensiero al cuore del problema: il sacerdozio femminile. E fare un confronto con le donne anglicane, che possono consacrare il Corpo e il Sangue di Cristo, e la Chiesa cattolica, che a distanza di due mesi concede il permesso alle donne di suonare il campanello, laddove esiste ancora.
In questo confronto partendo dallo spirito di libertà e di novità della Pasqua, devo dire che, almeno qui, lo Spirito ha soffiato più a Londra che non a Roma. Tutto questo in duemila anni di vangelo. Quanta poca strada si è percorsa e quanto poco evangelica!
So che il discorso è difficile e che la tradizione è divenuta una sorte di patrimonio genetico religioso. Però sarebbe un atto di ipocrisia non cercare di affrontarlo, senza illudersi di risolverlo in quattro righe.
Ho letto le motivazioni che Monsignor Qualizza ha detto a riguardo. Ho più rispetto per lui che per le sue motivazioni. Per sostenere il prete-uomo, tira in ballo una motivazione “tipologica”: Cristo è lo sposo della Chiesa e dunque non può essere che un uomo. Cristo non è lo sposo della Chiesa perché è maschio ma perché è il Figlio di Dio che si è fatto uomo. È un “matrimonio” fondato sulla differenza ontologica, non sessuale. Tutta la tradizione spirituale e mistica parla di Dio (e di Cristo) che ci sposa, ma non per questo il suo rapporto con me è un’anticipazione delle decisioni di Strasburgo sulla convivenza omossessuale.
Non mi convince nemmeno il rifarsi alla tradizione. Si deve tenerla presente, ma non è vincolante, per il fatto che la tradizione è un tramutarsi di uno spirito che vivifica la lettera e non un mucchio di lettere che mortificano lo spirito. Altrimenti avremmo una una tradizione cimiteriale, sarebbe come tramandsarsi una bara. Bel regalo! Pertanto non è corretto fermarsi semplicemente al fatto che nell’ultima cena non si parla delle donne ma degli apostoli. Innanzittutto perché potevano essercene e poi perché è riduttivo. Invece ci si deve chiedere: “Oggi Cristo si sognerebbe di negare alle donne la parità con gli uomini in ordine al sacerdozio?” Proprio lui che è stato straordinariamente libero con loro e proprio alle donne che, a parità, sono sicuramente più adatte degli uomini in un settore come quello della religione e del culto, dove la sensibilità, l’umanità, la fantasia, il buon gusto, sono le fondamenta.
Stando al vangelo nudo e crudo, con ciò che dice di “Cesare” e di “mammona”, si può giustificare un concordato con lo stato o addirittura una banca vaticana il cui presidente è stato consacrato vescovo?
E la gente? Quella che è libera accetta. Ma se si giunge ad accettare cose ingiuste, sarà ben più facile far accettare cose sacrosante.
Le donne di Basagliapenta, mi hanno fatto un obbiezione: “Che bello sarebbe vedere sull’altare la sacerdotessa incinta!”. “Perché, è più estetica la pancia del prete? Con la differenza che quella della donna dopo nove mesi sparisce e quella del prete rischia di raddoppiare!”.
I vecchi dicevano che, se si desidera una cosa, si trova sempre almeno una ragione per ottenerla; se una cosa non si vuole, sono pronte mille scuse per non ottenerla.

sabato 30 aprile 2011

19 Poca voglia di Esodo in Friuli


19 Poca voglia di Esodo in Friuli

Anche il mio gatto sa che la prima Pasqua è accaduta in Egitto e che la Bibbia narra questo “passaggio” di Jahvè e del suo popolo nel libro dell’Esodo. Nessuna meraviglia quindi che nella “lectio continua” della Bibbia il mio gruppo mattutino, scelga questo libro fondamentale, con una parola di commento.
Quando racconto loro dei bimbi ebrei condannati a morte dal faraone, mi accorgo che le mie fedeli si risentono che la schiavitù è un’opera diabolica, come le barbarità a cui si può assistere in questi giorni nel bel film di Schlinder e della sua lista di ebrei salvati dall’Olocausto di Auschwitz.
I conti non tornano quando cerco di attualizzare l’Esodo , perché non diventi una cosa morta e sepolta. Terminato di leggerlo, finisce anche la commozione e l’interesse si sposta dalle sabbie del deserto alle aiuole dell’orto ancora indietro. E mi chiedo:”Come mai il popolo ebreo aveva tanta voglia di liberazione al punto d’affrontare il cielo e i rischi per spezzare le catene che lo tenevano legato e i friulani non si scompongono per la loro sottomissione?”
Domanda interessante e inquietante, che merita una risposta.
Prima di tutto non si deve tirare troppo in ballo la Bibbia, per non cadere in un fondamentalismo stupido. L’esperienza degli ebrei, storicamente conclusasi, posso solo prenderla come una parabola dell’operare di Dio. E qui ha inizio un bel lavoro per analogia. Non so se ci riuscirò; chiedo di non essere condannato per averci tentato.
Le differenze di fondo tra il libro dell’Esodo e i friulani per me sono queste.
Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è un Dio che spinge gli oppressi ad abbandonare il faraone e a migrare. Il nostro Dio, o almeno colui che così ci è stato presentato, ha sempre insegnato ai poveri a sopportare e a inghiottire in attesa del premio nell’aldilà. Un Dio a difesa dello status quo, più che il Dio rivoluzionario della Bibbia.
Gli ebrei avevano contro di loro il faraone, con un volto ben definito, da cui proteggersi e a cui ribellarsi, i nostri faraoni sono sempre più di uno e non ci mostrano mai la loro ghigna, perciò non si sa mai da che parte sparare, anche perché sono galeotti. Invece di uccidere il popolo, preferiscono legarci con catene spirituali e culturali, che non ci procurano dolore fisico, ma ci scannano dal di dentro.
Ma trovo una differenza ancora più grande. Gli ebrei avevano dalla loro parte Mosè e Aronne, il potere civile e quello religioso e, se vengono a mancare, non si può fare nulla. Quando abbiamo avuto un politico o un vescovo che sia andato dal faraone a chiedere di lasciarci liberi di pregare e di vivere nella nostra identità, minacciando di fargli pagare le sue angherie? I nostri superiori politici e religiosi non sono mai andati in rotte col potere, che li pagava e legittimava, e hanno sempre fatto la predica, a noi che non ne avevamo bisogno.
Pertanto non mi sento di condannare la mia gente, se non ha tanta voglia d’Esodo, come gli ebrei. Loro hanno compiuto il grande passo perché avevano fame e pativano. Se avessero avuto la televisione, la moto e il frigorifero pieno, avrebbero mandato a quel paese anche Mosè. I friulani, in questo momento di abbondanza, pensano più mangiare e a ballare che non alle cose spirituali. Ma erano meglio gli ebrei, che appena Mosè si è distratto un attimo, hanno realizzato, in pieno deserto, la discoteca del “Vitello d’oro”? E a dirigere la musica con la bacchetta, era il prete Aronne. I nostri preti, ringraziando Iddio, non sono ancora arrivati a tanto.

domenica 24 aprile 2011

18 Il canarino pasquale


18 Il canarino pasquale

18 Il canarino pasquale.

“Siamo risorti alla vita, abbiamo celebrato la Pasqua…” anche noi, comunità peccatrice e distratta di Basagliapenta. Con i tempi che corrono, non sicuramente tutto a causa della gente, non mi attendevo chissà quale ressa, invece la sorpresa è stata grande: una strage di persone, più di ogni altro anno, a vivere la giornata dell’amore di Giovedì santo e quella del dolore di Venerdì e quello della gioia pasquale nella Veglia “madre di tutte le veglie” e “nella prima giornata della settimana”.
Sicuramente il fatto di avere tanta gente non deve illudermi. Se la rivoluzione della Pasqua inizia e si conclude in chiesa, siamo veramente mal messi. Detto ciò, preferisco avere la chiesa gremita, con tutti i rischi della distrazione, che ne conseguono, piuttosto che quattro gatti elitari. Perché metto già in preventivo che, presenti o non presenti, santi o peccatori, il mistero rimane mistero, ovvero al disopra della nostra portata e la gente comprende ciò che può capire e partecipa fino dove può partecipare. E questo è sempre accaduto, anche in tempi più adatti per la fede.
Mi ricordo che a Venzone, durante la solennità delle Quaranta Ore, il pievano chiamava oratori famosi per convertire i miei paesani recalcitranti. E il duomo era stracolmo di persone, intente ad adorare “il mistero della presenza”. Ma di quei momenti straordinari mi è rimasta nella memoria solo pre Raffaele Zanini, che è scivolato sul tappeto e ha saltato con il sedere tutti i sette gradini dell’altare maggiore. E della Settimana Santa mi ricordo solo le scraculades subito dopo aver spento l’ultima candela, con il sacrestano che ci picchiava con il manico della borsa e noi che mettevamo i sassi nelle scarpe per fare più chiasso. E nel mese di maggio potevano bene anche togliere la Madonna. Bastava che ci avessero lasciato i maggiolini da liberare in chiesa e i campanelli da suonare dopo la funzione del rosario. Un anno a Basagliapenta è morta una persona di danno e il dolore era grande. Ma il becchino, nell’abbassarsi, strappò i pantaloni. Non mi ricordo di aver fatto un funerale più consolante e allegro.
La gente è così. Siamo tutti così. E dobbiamo accettarci. Per questo, della Pasqua di quest’anno, mi basterebbe che si ricordassero del canarino che abbiamo portato in chiesa nei tre giorni santi. Ha tanto cantato, ma tanto, che la gente era come istupidita ad ascoltarlo. E ogni volta che cantava, i bambini e i grandi si davano di gomito ridendo. E quando si zittiva, non attendevano che il prete riprendesse a predicare ma che il canarino riprendesse a cantare.
Quanta contentezza nella Pasqua di quest’anno! E se ci ha aiutato il canarino con il canto, che Dio lo benedica. Certo che lui non capiva nulla del mistero, come non avrà capito nulla il gallo che cantava per contare i rinnegamenti di Pietro. Come non avranno compreso nulla i diretti testimoni di questi grandi avvenimenti. Il capire è relativo e anche la folla dei partecipanti. L’importante è che accadano. Sono sicuro che il prete più sfortunato abbia avuto più gente in chiesa il giovedì santo alla sera che non Cristo all’ultima Cena e anche venerdì santo rispetto agli spettatori della morte di Cristo, pochi e distratti. Per non parlare della Pasqua, in cui è risorto senza che nessuno gli battesse le mani o gli facesse da testimone. Eppure le nostre chiese zeppe di persone sono una pallida ombra di quei fatti accaduti nel silenzio e nel mistero.
Non è la processione di persone verso il sepolcro che fa risorgere Cristo ma è la resurrezione di Cristo che attira la gente verso il sepolcro vuoto. E dinnanzi a un mistero così grande ogni segnale è valido e inadeguato allo stesso tempo. Così il mio canarino può far ricordare la Pasqua più di tutte le liturgie e le omelie di questo mondo.

sabato 23 aprile 2011

17 Onorare: una legge di vita


17 Onorare: una legge di vita.

In quel puntino sperduto nel mondo, che si chiama Basagliapenta la primavera è entrata anche quest’anno alla grande. Difatti il 21 marzo abbiamo presentato la Bibbia tradotta in friulano, nello stesso ambiente in cui è maturata. Una grande festa: per la gente, per le belle parole dette, per il clima religioso e affettuoso della celebrazione. Insomma bene e basta.
Vorrei scrivere qualche impressione a caldo.
Qualcuno si aspettava il pienone in paese. A parte che non è più la stagione dei pienoni, bisogna anche dire che la gente si è assuefatta, l’abbiamo abituata, a venire in chiesa solo per la messa o per le funzioni religiose. Se gli avessimo detto che la Bibbia non vale meno della messa e soprattutto del rosario e delle coroncine, forse ora staremmo meglio. Mea culpa. Peraltro possiamo prendercela con le persone, se per le gerarchie la Bibbia viene dopo tutto il resto?
Un gruppetto di ragazzini mi ha detto: “Pre Toni, lunedì non possiamo esserci perché a Udine c’è Jovanotti e abbiamo già comprato il biglietto.” Cosa dovevo dire loro? Che paragonare la Bibbia a un disco o a un cantante è un’eresia e preferire il cantante è una tragedia? Se l’hanno fatto, lo avranno sentito da altri. Nel caso è meglio chiedersi come siamo giunti a questo? Ho risposto loro: “Ragazzi, può essere che per voi questo sia il tempo di Jovanotti. Quando verranno altri tempi, spero che possiate leggere il libro della vita.”
Però la maggioranza è stata più che contenta. Infatti il giorno dopo dicevano ”Cosa vi siete persi!”.
Che è il più bel complimento, dal momento che in chiesa si deve guadagnare, non perdere.
Molti hanno detto: “ Noi, non c’intendiamo riguardo la Bibbia, ma abbiamo piacere a sentire parlare bene del nostro prete.” Che bello! Il prete, il medico, il maestro non devono onorare la loro professione e il loro ambiente? Se un prete fa odiare la chiesa e un professore la scuola e un dottore l’ospedale e un genitore la casa e la famiglia, non è un delitto?
Una volta Gesù stava parlando e una donna ha urlato: “Benedetta tua madre che ti ha partorito e il suo seno che ti ha allattato!” Difatti, quando uno si fa onore, si dice: “Benedetta sua madre!” Se invece lo conducono in prigione. “Povera madre!”.
Quando è terminata la celebrazione, le donne di Basagliapenta, e non solo loro, sono venute a complimentarsi con me e dicevano: “Che onore ad averlo come nostro parroco” se invece ne avessi combinata una di quelle grosse avrebbero finto di non conoscermi e avrebbero detto: “ Ne ha combinata un’altra delle sue, quell’ostinato?”
Una persona che ti onora, l’ascolti, la preghi, la tieni da conto, perché ti aiuta a vivere. E si è orgogliosi di mostrarla come un tesoro. Che piacere, se i friulani, quando si incontrano con un forestiero, dicessero: “Vieni, che ti mostro i miei tesori: la mia chiesa, la mia lingua, il mio canto, il mio modo di vivere, di ragionare, di mangiare!” sarebbe un popolo onesto e bravo e di avvenire sicuro. Si mostrerebbe intelligente e fine. Esibirebbe allo straniero i suoi tesori senza perdere la sua dignità e guadagnerebbero entrambi.
Il quarto comandamento recita: “ Onora tuo padre e tua madre, se vuoi vivere a lungo sulla terra.” Peccato che l’abbiamo usato nell’accezione più banale ovvero ubbidire ai genitori, ai superiori e ai padroni. C’è qualcosa di più. Il frutto dell’albero onora il fiore e il ramo e il tronco e la radice. Solo così c’è continuità. Perché onorare non è una regola di buona educazione o di convenienza ma è una legge di vita. Il contrario di onorare è il vergognarsi, non voler più sentire parlare, tagliare ogni rapporto. La morte.

venerdì 22 aprile 2011

16 Mandi, passerotti, e buona fortuna!


16 Mandi, passerotti, e buona fortuna!

Il Signore, nella sua liberalità, mi ha fatto giungere in una casa con un grande cortile, un bell'ippocastano nel mezzo, e prato da vendere e le mie giornate iniziano e terminano con le lodi e i vespri cinguettati dagli uccellini.
In questo grande spazio, che tutti i bambini invidierebbero, ho appeso sui rami dell'ippocastano due casette. E lì regolarmente, per tutto l’inverno, passo a buttare scodelle e scodelle di miglio, frumento, mais macinato e girasoli. Perché le bestioline possano affrontare i rigori della stagione senza grandi fastidi, loro che “non seminano, non mietono, non ammucchiano nel granaio”. (Mt 6, 28). Nonostante ciò, non hanno mai perso né il piacere di cinguettare né di mangiare. Perché, anche se loro non lo sanno, il Padre celeste li mantiene. A dir la verità sono io che li mantengo, ma perché ho trovato altre persone che vedono di me e Dio che vede e provvede a questa gente. È la catena della Provvidenza, più seria di quella di Sant’Antonio.
Sicché dunque ogni giorno, con la pioggia, la nebbia e il ghiaccio, una trentina di passerotti, assieme a qualche sirant, si sono trasferite nel mio albergo, spesate di tutto. E io trascorrevo le giornate a guardarle saltellare sui rami, a litigare fra loro per entrare per primi nella casetta, o anche per becchettare sotto l’albero, come tante galline . Ogni tanto arrivavano anche le tortorelle e il quadro sarebbe stato paradisiaco, se non fossero arrivati i gatti, anche loro cittadini affettuosi della canonica.
Da un po’ di tempo a questa parte il mio lavoro è calato di colpo: la casetta non veniva svuotata con la velocità di sempre e anche i passerotti, man mano che aumentava il tepore e l’erba, hanno preso il largo. Qualche ciuffo di tarassaco o filo d’erba o seme riescono a procurarselo dappertutto e non hanno più bisogno del pievano.
Non sarei sincero se non dicessi che all’inizio ho provato un po’ di delusione e una punta di avvilimento. “Guarda – mi sono detto – fino a quando avevano bisogno non hanno saltato un giorno e ora non sanno nemmeno dov’è la canonica”. Un ragionamento umano, ma tanto limitato e poco intelligente. Non posso pensare che Dio abbia creato i passeri per far compagnia a un povero prete e dare vita a una vecchia canonica. Se mai il contrario. Si può provvedere per loro quando non ci arrivano, ma solo per aiutarli a giungere al momento in cui si arrangiano da soli, Difatti, ora sono cresciuti, e hanno avuto tanta intelligenza da disimpegnarmi. La dipendenza deve restare un gradino nella vita, non può diventare una regola.
Mandi, passerotti benedetti, e buona fortuna! Ora che mi sono liberato di loro, posso utilizzare il tempo per altre cose, per esempio per il giardino e per l’orto, infatti è giunto il momento di trapiantare, irrigare. Ritorneranno, se saranno vivi, e io ritornerò a nutrirli, se sarò vivo. Per ora mi rimane l’orgoglio di averli aiutati e di sapere che si arrangiano.
Di ragionamento in ragionamento, ho pensato alla Chiesa, che per tanto tempo ha nutrito e sostentato e ora si lamenta che la gente non la frequenta. E anche a tanti genitori , che non vedono più aprirsi la porta di casa ed entrare i figli. Nel lamento di tanti preti però ho notato più rabbia che dolore; in quello dei genitori più dolore che rabbia. La differenza sta nell’amore, porta alla strada della libertà.

giovedì 21 aprile 2011

15 la differenza fra Dio e l’uomo


15 la differenza fra Dio e l’uomo

Sono andato agli esercizi spirituali assieme ai miei amici. Una cosa simile si legge anche nel vangelo, dove dice che “Gesù prese a parte Pietro, Giovanni e Giacomo e li condusse soli sopra un alto monte” (Mc 9,2).
Forse il nostro confronto con il vangelo si ferma solo al monte (siamo stati a Zuglio), ma abbiamo cercato lo stesso di ispirarci a quel passo e a quel fatto. Cioè al piccolo numero di partecipanti. In centomila si può assistere a una partita, ma non meditare. Ci siamo recati in un posto fuori mano, non per fuggire dalla realtà, ma per guardarla con più obbiettività e caricarci per poter ritornare alla vita quotidiana con uno spirito diverso. Se non si dà anche spirito si dà poco e non si può donare spirito, se non ci si mette in contatto con lo Spirito.
Ci siamo recati sulla montagna perché più si va in alto e più si vede la realtà nella sua globalità. La si vede relativizzata e soprattutto a rovescio, perché la si guarda dall’alto in basso, come le guarda Dio. E guardando dall’alto, le cose sono una più piccola dell’altra, e tutte piccole.
Ma ci siamo andati anche per un altro morivo. Non basta parlare di Dio se non si parla a Dio. Non basta nominare trenta volte al giorno il nome di Dio se non si ha l’esperienza di Dio. Noi preti raccomandiamo sempre di pregare. Non so se preghiamo troppo. Dispiacerebbe che succedesse con noi, come col calzolaio, che ha le scarpe più rotte del paese.
Inoltre abbiamo voluto lasciare i nostri lavori anche per un senso di gratuità e delicatezza. Per capire e fare capire che il vero prete e pastore del paese è il Signore. Se manca il prete non cade il mondo. Se manca il Signore il mondo non si regge.
Prima di partire ho fatto ciò che fa ogni persona senziente: ho cercato di sistemare ciò che avevo fra le mani e di provvedere a quelle creature che dipendevano da me. Intendo quelle della canonica, non le anime, che non mi appartengono.
Ho dato il becchime agli uccellini nella gabbietta e a quelli che vengono a becchettare sotto l’albero. Ho provveduto ai cani, e ai gatti, anche a “quello della Bosnia”. Che sarebbe un povero gatto che viene ogni giorno a miagolare sulla porta. Inoltre ho annaffiato tutti i fiori, in casa e fuori.
E mentre compievo quest’officiazione ragionavo e ho scoperto che l’uomo è grande e piccolo, partecipa a Dio ma solo in una maniera molto limitata. Qui sta la differenza fra me e lui. Ho detto loro: “Io posso provvedere a voi per un giorno o due, ma non oltre. Se volete che vi aiuti, pregate che ritorni, altrimenti dovrete rassegnarvi all’assistenza pubblica, come tutti.”
La provvidenza di Dio è lunga come il tempo, che è infinito. La mia è corta come il mio tempo, che dura un attimo. Però in questo breve tempo io faccio da Signore per le mie creature.
Facendo la mia parte, mi sento apparentato con lui e gli do una mano nel mio fazzoletto di terra e nella mia briciola di tempo. E mi illudo di alleggerire il carico a lui, che deve provvedere a tutta l’estensione del mondo e per tutta la lunghezza del tempo.
Forse intendeva questo il Signore, quando ha detto di non tormentarci per il domani (Mt 6,34). Il nostro amore, anche quello di una madre che è il più grande, deve accettare il limite. Finché si può e fino dove si arriva.

mercoledì 13 aprile 2011

14 I miei giovani, così lontani e così vicini


14 I miei giovani, così lontani e così vicini

In questo momento, e sempre, il mio affetto pensieroso va ai miei giovani di Basagliapenta e di Rivalpo e Valle e Trelli e agli altri che che ho conosciuto nella mia vita.
Siamo giunti velocemente a metà Quaresima e ci stiamo avvicinando al mistero rivoluzionario della Pasqua ma non vedo nei miei giovani tutto quell’interesse e partecipazione che si avrebbe diritto d’attendersi. Ho l’impressione che il fatto non li sconcerti per nulla.
Per non rimanere da solo con la mia pena, vado a dare un’occhiata al mondo della scuola. Anche qui c’è disinteresse generale. Passo attraverso la baracca della politica e le cose, se fosse possibile, sono ancora più desolanti. Per farla breve, sembra che i giovani non abbiano più passione per nulla, un generazione di persone che inghiottisce mode e soldi e idoli senza dare un contributo alla società.
La strada più comoda, e più banale, sarebbe quella di unirmi al coro generale che soffoca la gioventù con gli epiteti più brutti e con i giudizi più impietosi.. ma non è giusto e soprattutto non abbiamo nessun diritto di giudicare questa generazione ”cattiva e traditrice” (Mt 16,4) perché la cattiveria più grande e il tradimento più sporco lo abbiamo fatto noi prima di loro. Dinnanzi all’adulterio che i giovani stanno facendo nei confronti del nostro mondo così corretto, cattolico e benpensante, devo ripetere le parole del Signore: “chi fra voialtri è senza peccato, scagli la prima pietra” (Gv 8,8). E allora vedremo allontanarsi, uno dopo l’altro, il genitore, il prete, il maestro, il politico etc, etc…
Quando urliamo che non hanno valori, non facciamo altro che dare loro la responsabilità del nostro peccato. Perché i giovani, con il loro comportamento, sono lo specchio del nostro peccato.
Loro non hanno valori, ma noi li avevamo e li abbiamo persi o venduti o sepolti. Noi avevamo un’esperienza di povertà, essenzialità, paese, cultura, lingua, musica, religione, concezione della vita. Erano il nostro tesoro, da tramandare alle nuove generazioni, e la “roba” e i “soldi” ci hanno preso tanto al punto che abbiamo lasciato cadere le perle spirituali.
Non voglio con questo condannare senza appello la nostra generazione. Probabilmente abbiamo creduto di fare bene. In pratica però abbiamo fatto una scelta parziale, sacrificando l’”essere” al’ “avere”. E questo non ci permette di fare prediche.
Ma se i genitori non hanno troppo diritto a fare prediche, ne hanno ancora meno diritto i preti, i maestri e i politici, che avevano a loro disposizione più tempo e mezzi ed erano pagati per questo. Quelli hanno addirittura perso l’autorevolezza, che darebbe il primo diritto a fare la ramanzina.
Si può benissimo rifarsi al caso di Pinocchio e pensare che la gioventù è l’età della pazzia, che si aggiusta col tempo. Qui però c’è qualcosa di più profondo. C’è una generazione intera che passa diritta davanti alla chiesa, non si sogna di sfogliare un libro ed è nauseata dalla politica. Si può tirare in ballo l’edonismo e il consumismo e tutti gli ismi di questo mondo, ma si tratta di uno schiaffo maiuscolo alla Chiesa, alla scuola, alla politica, a tutti i livelli.
Cosa possiamo fare? Vergognarci, pentirci, recuperare in amore ciò che non abbiamo saputo fare in intelligenza. Un amore umile e paziente, di peccatori e non da maestri. Facciamo luce sul mondo religioso, culturale e sociale e anche i giovani, così lontani, ma così vicini al nostro cuore, ritorneranno. Come le falene attratte dalla luce. E il Dio del perdono abbia pietà dei padri e dei figli e aggiusti gli errori della nostra e di ogni generazione.