sabato 14 giugno 2014

24 La libertà dello spirito

24 La libertà dello spirito
Dovendo celebrare i doni che lo Spirito Santo spande con abbondanza sulla sua Chiesa e sul popolo di Dio , non si poteva trovare momento e cornice più adatti delle Pentecoste, la festa dello Spirito Santo. E così si è ripetuto l'appuntamento di tutti i movimenti cattolici (si parla di 123 aggregazioni carismatiche) in piazza San Pietro, attorno a papa Benedetto. Il ricordo e il confronto inevitabile era con il prima incontro col papa Giovanni Paolo II, il papa che per primo e in maniera ostentata faceva capire di appoggiarsi sulla disponibilità e generosità entusiastiche di questi "fans" dello Spirito Santo, autentiche novità e "primavera" della Chiesa.
Papa Benedetto non nasconde la continuità del suo ministero col predecessore, ma non occorre essere vaticanisti per vedere la differenza nel modo, più che nella sostanza. Ma un modo tanto marcato che diventa sostanza. Di fatto, la moltitudine di gente giunta a Roma da ogni parte d'Italia e del mondo, passa 300.000, questa volta non si è scatenata una effervescenza intonata allo spirito che le legittima ma un po' stonata e troppo invadente e autoreferenziale. Si è avuta l'impressione che papa Ratzinger non li avesse chiamati a mostrare visibilmente la forza e la fantasia che lo Spirito opera nei suoi discepoli, ma piuttosto a mettersi in ascolto umile e silenziose di ciò che vuole comunicare ai suoi fedeli. Un convegno solenne, imponente, ma misurato, dove l'aspetto più importante non era la gente, i destinatari, ma lo Spirito, l'autore. E dunque tanta preghiera e tanta riflessione.
Invece della sfilata dei fondatori, accompagnata dall'ovazione festante che dai rispettivi discepoli e gregari, si è preferito scegliere tre dei più rappresentativi a commentare i salmi del vespro che venivano cantati. Si è potuto così ascoltare l'intervento del prof. Andree Ricardi della comunità di San Egidio, a commento dal salmo 112, il "Laudate pueri Dominum", di Kiko Arguello dei Neocatecumeni a commento del salmo 147, e di don Julian Carròn di comunione e liberazione a commento della Apocalisse. Dei tre interventi, il più profondo e "biblico" mi è parso quello dal prof. Riccardi, un'omelia da padre della chiesa. Ha insistito sul fatto che, solo con la dimensione interiore e la grazia di Dio il cristiano, anche il più impegnato, può salvarsi dalla povertà e dalla sterilità. Il più polemico e forse stonato è stato quello di Kiko che, parlando della ricostruzione del tempio di Gerusalemme e dell'umanità di oggi, ha insistito sull'essenzialità dei movimenti carismatici, così poco considerati dalla gerarchia.
Il papa ha tenuto, come sempre, una grande omelia, lunga, profonda, articolata, e ragionata. Pesante anche come contenuto e pesata. Una lezione teologica sulla scuola dello Spirito Santo. Una scuola di libertà, di responsabilità, di unità e complementarietà dei movimenti fra di loro e con tutte le compionenti del corpo della chiesa. Come Gesù a Nicodemo: "Il vento soffia dove vuole e tu senti la sua ventata, ma non sai né da dove proviene né dove va" (Gn 3, 8), lo Spirito, il vento creativo di Dio, è libero di soffiare dove vuole, perché la sua libertà non sopporta confini né esclusive monopolistiche. Se lui è la fontana di vita, dobbiamo andare noi a bere alla sua fontana, con umiltà e in fila con gli altri servi di Dio, e non illuderci di poter mettere l'acqua nelle fiasche e portarla a vendere nelle nostre baracarelle. In più, il soffio dal vento di Dio è fantasioso e creativo, ma non dispersivo. Crea disordine nel nostro ordine, ma per mettere sù il suo ordine. è uno spirito di multiformità, ma non di confusione e di contraddizione. Lui è libero nei nostri confronti, ma noi non siamo liberi nei suoi. Da qui grande umiltà, docilità, contemplazione. E' un correre dell'anima, non un correre in giro. Uno spirito che opera nel santuario del nostro cuore e non nelle piazze e nella confusione e nella competizione col mondo.

sabato 7 giugno 2014

23 In coda per il Codice

23 In coda per il Codice
E' inutile mettere la testa nella sabbia per non vedere la realtà: 50 milioni di copie in tutto il mondo e la gente in coda per vedere un film ancora più sballato del libro sono una buona sberla. alla serietà della gente, alla coerenza dei cristiani e di quelli che, in generale, cercano la verità, alla forza di persuasione degli intellettuali e dei maestri in fatto di religione e di fede. Il segretario della Congregazione per la dottrina della fede ha mandato fuori un documento dove spiega e contesta una per una le teorie sballate di Dan Brown e le falsità evidenti con la tradizione culturale cristiana, le incongruenze e le assurdità storiche; vescovi e cardinali e preti e perfino una organizzazione potente e influente come l'Opus Dei, chiamata in causa senza nessuna logica, hanno avvisato e straavvertito che si trattava non solo di un falso ma di una offesa alla ragione e alla religione. Ebbene tanto clamore e tante prediche, sacrosante, non hanno fermato nessun curioso dal comprarsi il libro o di buttare via i soldi per il cinema. Che anzi la proibizione e le raccomandazioni della gerarchia hanno fatto da cassa di risonanza, trasformando una banalità in un evento mondiale.
Davanti a questo flop generale, dobbiamo porci qualche domanda e tirare qualche conclusione. La prima, scontata ma non troppo. Che nessuna proibizione ha mai fermato nessuno. Non lo faceva per verità, quando valeva il principio di autorità e lo farà tanto meno adesso, che vale il principio "proibito proibire". Allora la Chiesa deve tacere? No. Deve parlare, ma sapendo che non fermerà nessun curioso e ingenuo. Deve dire la sua ma senza insistere troppo, senza fare campagne tipo "Esercito della salvezza", senza nessuna crociata moralistica. Deve spendere sulla promozione, non sulla proibizione. Deve investire sugli svelti, che saranno sempre minoranza, e non sugli stupidi, che saranno sempre maggioranza. Più che mettere recinti o reticolati o staccionate, perché le pecore non scappino, deve creare un clima positivo, bello, sereno, di modo che non abbiano nessun prurito di scappare, sapendo che mollerebbero il più per il meno.
Che la gente preferisca le fiabe, più golose, alla verità, più faticosa, non è di questa nostra società postmoderna e postcristiana. Lo scriveva già San Paolo al suo discepolo Timoteo: "per i loro pruriti, si tireranno vicino una folla di maestri che gli lisceranno le orecchie e così non vorranno più saperne di ascoltare la verità per andare dietro alle fandonie" (2 Tm 4, 3-4). Pinocchio, che vende il sillabario per andare a vedere i burattini, è un modello imperante e sempre attuale. Se uno vuole andare a fondo nella storia di Cristo e del suo mistero, non va da Dan Brown, ma da Matteo, Marco, Luca e Giovanni e dai padri della chiesa e dai santi.
Il caso ci fa capire quanto poca è la preparazione e il fondamento culturale dei nostri popoli "cristiani", e quanto poco siano in sotto sono le nostre "radici cristiane". per dire che il lavoro di coscientizzazione e di acculturizzazione è sempre da fare. perciò si deve investire in formazione e cultura più che in manifestazioni megagalattiche. Bisogna resistere alla tentazione di allungare l'acqua della verità o di gasarla per vedere le bollicine.
Ma una domanda devo farmela e farla. Se un autore furbo e poco serio riesce a farsi leggere e guardare da milioni di persone raccontando un sacco di balle, perché i nostri teologi e intellettuali cattolici non sono capaci di raccontare la grande e bella verità di Cristo con la stessa grazia e con lo stesso incanto? Perché noi dobbiamo riuscire, o almeno tentare una comunicazione golosa, splendente, del mistero di Cristo? Perché la verità deve essere meno bella della bugia? Perché noi cattolici dobbiamo avere solo documenti bavosi e non troviamo un Dan Brown?

domenica 1 giugno 2014

22 Nella squadra di Dio

22 Nella squadra di Dio
Dice la Bibbia che tutte le cose hanno due facce. Così uno che ci vede entrare nell'ospedale un giorno sì e un giorno no per travasare il sangue, può pensare: "che fortunati che sono: possono andare a bere a una fontana che salva loro la vita". E un altro può correggerlo: "ma no! Non vedi, poveri, che sono in lista per la corriera che li conduce via!". E, a dire la verità, ci sono ragioni tanto da una parte che dall'altra. La dialisi ci permette di tirare avanti, ma la cronicità dal male ci conduce via. In poco tempo la corriera è passata tre volte. L'ultima sosta è stata la più dolorosa, perché ci ha condotto via un giovane, Giacomo.
Lo avevo salutato come ogni volta nel lunedì, alla fine della dialisi e, dato che un mio amico si lamentava delle sue dolenzie, gli ho detto: "Non fare quella vita! guarda Giacomo che serenità ha e che esempio ci dà". pòi gli ho fatto: "Mandi, Giacomo!". E lui: "Ciao, Bellina!". chi pensava che aveva ancora una giornata di vita?
In effetti i suoi malanni erano tanti, aumentavano a dismisura e venivano da lontano. Questo giovane innamorato della vita, appassionato di sport e tutto ciò che di bello ti puoi trovare sul fior fiore della gioventù, colonna della squadra di calcio del Bearzi, ha iniziato il suo calvario a 16 anni, con un malore al termine di una partita, e la dialisi. Nel 1984 uno sprazzo di salute: un trapianto di reni gli torna a fare splendere il sole. Ma cinque anni dopo si trova come prima e peggio di prima, con le complicazioni. La prima e più brutta quella di dovere adoperare le stampelle. Arrivava per primo con la sua auto sempre in ordine, col giornale sotto il braccio, lungo e secco come un pennello, gli occhi sereni anche se velati di malinconia e con un ridere misurato. Mai un lamento, mai una malegrazia, mai una ribellione. Anche quando la dialisi diventava una tortura. Ci voleva bene e noi gli volevamo bene, cercando di spartire assieme la nostra esperienza e di darci una mano col calore della solidarietà e dell'affetto. La fine è giunta improvvisa mercoledì sera. Lo hanno sepellito sabato scorso. Quelli che lo hanno visto nell'ultimo sonno, sono rimasti impressionati dalla sua serenità. Come uno che toglie dalla schiena una croce portata troppo a lungo e troppo calcata, e tira fiato.
La prima giornata senza Giacomo eravamo sconfortatati e non riuscivamo a darci pace, anche se poche volte la morte è stata una liberazione meritoria come in questo caso. Ognuno covava i suoi pensieri. A un certo punto, uno dice: "Sento che Giacomo è con noi, in giro per la stanza". Dopo un'eternità, un altro dice: "Questo è un caso di cui scrivere: Santo subito!". E di nuovo zitti, a pensare a uno che non è più con noi, che è stato tanto con noi e che non è andato dal tutto.
In questi giorni che ci preparano alla Ascensione, la liturgia ci fa leggere le parole di Gesù: "Il vostro cuore è gonfio di avvilimento. Ma io vi dico la verità: è meglio per voi che io parta" (Gn 16, 6-7). Mi piacerebbe che i genitori e i fratelli e i tanti amici di Giacomo riuscissero a leggere con la luce della fede questo suo allontanarsi da un mondo di dolore per un mondo di libertà e di contentezza, come una vacanza eterna. E chi lo merita più di lui, che ha tribolato 28 anni su 44?
Il Signore, col suo modo misterioso di volerci bene, ha lavorato alla perfezione questo suo figlio e lo ha spurgato a lungo nel forno della passione, per farlo diventare un diamante perfetto e splendente. Una punta di diamante Nella squadra degli angeli e dei santi. Mandi, campione!

sabato 24 maggio 2014

21 Volere bene

21 Volere bene
Una lingua non è solo una sfilza di parole infilzate a sorte a un filo, ma è lo specchio primogenito dell'anima di una persona e di un popolo. Non dico che sia l'unica e ultima maniera per conoscere un popolo, ma di sicuro è la prima e fondamentale. Ogni popolo possiede un suo modo particolare e originale o originario di presentarsi e questo modo va guardato e studiato con passione, come strada privilegiata per la conoscenza. Uno di questi modi originali riguarda una dalle parole, e un concetto, dei più usati e abusati: quello dell'amore. Un amore adoperato in tutte le salse e pasticciato in tutte le maniere, perché "amore è amore e non brodo di verze".
Ebbene un friulano genuino adopererà la parola "amore" e i suoi derivati, come "amare" eccetera, meno che può o anche mai, perché noi friulani, nella nostra concretezza e prosaicità, non diciamo "ti amo", ma "ti voglio bene", andando subito alla sostanza della questione. E il "volere bene" è l'espressione giusta per parlare di questo motore universale. Ogni anno, giovedì santo, sento un brivido lungo la schiena quando leggo di Gesù che, "dopo aver voluto bene ai suoi che erano in questo mondo, volle bene loro fino all'estremo" (Gn 13, 1). O quando, sempre nel commiato, dice: "Questo è il mio comandamento: che vi vogliate bene l'un l'altro, come io ho voluto bene a voi" (Gn 15, 12).
Abbiamo appena celebrato la giornata della festa della mamma, una festa che non è liturgica e messa nel messale, ma entrata appieno nella nostra tradizione e, spero, nel nostro cuore. Parlando a una madre, a un padre, non si può non augurargli di volere bene ai suoi bambini con lo stesso benvolere, anche se in scala ridotta e in dimensione umana e creaturale, che Dio ha per noi. Un benvolere che ci dà senza pentimenti e senza ripensamenti e senza ricatti. Un benvolere che butta sempre, come una fontana, anche se la gente va li solo quando ha sete e non si sogna neanche di ringraziarla e di chiudere l'acqua. Un benvolere che non parte dalla nostra degnità ma dalla sua liberalità. Perciò non si asciuga e non si riduce quando noi tradiamo col nostro comportamento questa benevolenza, ma se mai cresce. Perché che il benvolere tende a crescere e non a calare, ad arrivare al massimo e non al minimo, a sacrificarsi e non a sacrificare.
Volere bene è forse istintivo. Anche le bestie, nella loro struttura psicosomatica, danno tutto per i loro piccoli, giungendo a un eroismo a cui gli uomini a arrivano di rado. Credo che qualunque genitore voglia bene, anche al più selvaggio e scapestrato. Anzi ci sono genitori selvaggi che stravedono per i loro bambini e poveri mai loro quelli che li guardano di traverso o si permettono una critica o una malegrazia. Il punto è proprio questo: volere il bene dei figli e non volersi bene adoperando i figli per scaricare o colmare le proprie frustrazioni e delusioni. Il bene dei figli non è far fare loro ciò che non sono riuscito a fare io, anche se non gli piace o non sono portati, ma cercare di capire il progetto che Dio ha messo dentro di loro, nella loro individualità, e tirare fuori (educâ = educere, tirare fuori) la meraviglia che Dio ha pensato e voluta, come Michelangelo sapeva tirare fuori un miracolo da un blocco di marmo. Il bene dei figli, e di ogni persona, è un bene vero, reale e non virtuale. E questa verità comprende anche i difetti e gli aspetti meno simpatici. Che vanno guardati sempre con affetto ma con realismo e senza sconti. E', quindi, un bene globale, armonico, che non lascia fuori niente e non discrimina o elimina ma completa. Sull'esempio di Dio. Non è un caso che Dio si sia rivelato soprattutto come padre e madre.

sabato 17 maggio 2014

20 Una famiglia al buio

20 Una famiglia al buio
Neanche la gioia di Pasqua e neanche la luce discreta e benedetta del cero non riescono a distrarre il mio pensiero e ad alleggerire il mio cuore. In questi giorni il mio pensiero va spesso a una famiglia di parrocchiani virtuali ma anche virtuosi che da tanti anni onorano la nostra chiesa. Parlo di Romeo e di Idute, tolmezzini trapiantati a Colloredo di Prato. Una storia, la loro, esemplare, che da quarantatré anni mettono in pratica giorno per giorno, croce per croce, la promessa di fedeltà “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”. Tanto esemplare, in questi tempi di precarietà familiare e di amori instabili, che non interessa a nessun mezzo di informazione e comunicazione, sempre pronti a tuffarsi a pesce nei tradimenti e nella violenza.
Idute si è ammalata di una forma di sclerosi subito dopo che si erano sposati. Ed è riuscita ad allevare due figli che adesso sono grandi. Anzi il figlio li ha fatti diventare nonni due volte. Romeo aveva studiato a Tolmezzo dai Salesiani ed era molto portato per le belle lettere (ha una mano splendida nel buttare giù poesie in friulano), ma ha dovuto, come tanti, trovarsi un mestiere. Per dieci anni ha avuto un officina a Mestre e si è fatto anche un po' di fortuna che gli ha permesso, quando la moglie andava peggiorando, di comprarsi una casetta e di dare una mano nella comunità Piergiorgio. Poi la moglie non ha potuto più camminare e da quindici anni lui la trascina ovunque. In qualunque stagione e con qualunque tempo. Possiede una passione esagerata per la fotografia. Ne ha fatte a migliaia. Ebbene, davanti a un bel monumento, a una rarità, a un rovo di rose c'è sempre Idute, che per lui è il più bel monumento e rarità e rosa.
Il passare degli anni, il carico sempre più pesante, la preoccupazione sempre più marcata lo hanno segnato anche lui, che va soggetto a momenti di depressione e di stanchezza. Adesso ringraziando Iddio, sembrava che fosse riuscito a uscire dal guscio. E' stato con la moglie a Grado e tornava a passeggiare per il paese. L’ultima volta lo ho visto il 30 di aprile di domenica. C'era un tempo da lupi e si erano bagnati nel tratto, per loro eterno, fra l' auto e la porta della chiesa. Come sempre, anche questa volta mi hanno portato dei fiori, un mazzo di papaveri, che abbiamo messo sull' altare.
Prima di lasciarci, mi sono permesso di ringraziare questi amici così fedeli. “Non posso fare a meno di invitarvi a riflettere sul fatto che Romeo e Idute sono arrivati da Colloredo con questo tempo, Loro che avevano tutte le ragioni per stare a casa, mentre tanta gente, che avrebbe mille ragioni per esserci, non c'è”. Ci siamo dati appuntamento alla prossima e sperando in un tempo più decente. Ma non so quando sarà la prossima. Perché, nel martedì mi ha telefonato la figlia, giunta su da Roma, e mi ha raccontato ciò che non avrei mai voluto sentire. Suo padre è arrivato casa da messa ha fatto scendere la moglie, come sempre. Ma stentava e non era naturale nei movimenti. Ha detto che andava su un attimo in camera. Vedendo che non scendeva a pranzo, Idute lo ha chiamato forte ma senza risposta. Non potendo muoversi, ha fatto venire il figlio, che è salito con un brutto sospetto. Romeo era disteso sul pavimento, con gli occhi spalancati, e biascicava da non riuscire a capire nulla. I medici, arrivati immediatamente hanno constatato che aveva avuta una emorragia cerebrale e non potevano promettere niente. E' ancora in terapia intensiva, tutto intubato e con gli occhi rivolti verso il soffitto. La moglie, in carrozzina, guarda attraverso la finestra senza scambiare parola. Voglio sperare che anche Dio guardi. Nella gusta direzione.

sabato 10 maggio 2014

19 Memoria positiva

19 Memoria positiva
Per una coincidenza fortunata, questa mia riflessione settimanale esce il sei di maggio, mentre il Friuli intero si fermerà a rivivere i trent'anni di agonia, di morte e di resurrezione dal terremoto. Trent'anni sono più di una generazione e dunque un fatto così calamitoso e fragoroso rischia di essere spazzato via dall' accelerazione esasperata ed esasperante di questi anni forsennati. Tanti nostri fratelli, vittime e protagonisti, non sono più qui a raccontarla. Non mi riferisco tanto a quei mille e passa che l'angelo della morte ha intrappolato sotto le macerie, ma a tante persone che non sono riusciti a vedere e a godere la ricostruzione. Tanti altri sono troppo giovani per farsi una idea della tragedia che ci ha colpiti e dello squarcio aperto nel cuore del nostro Friuli. Guardando i paesi di oggi, così ben fatti, così nuovi, così ricchi, è impossibile rendersi conto che un popolo ha rischiato veramente di essere inghiottito. Sarà bene che i padri e i nonni raccontino loro, come ci consiglia con sapienza il libro del Deuteronomio, ciò che è successo e come si è riusciti ad affrontare e a superare una conseguenza di quella fatta. Anche per prendere spirito per poter affrontare con la stessa fede e forza le sfide con cui ogni generazione è chiamata a confrontarsi.
La memoria del terremoto e della ricostruzione è una memoria positiva, soprattutto se rapportata ad altre calamità capitate lungo l'Italia in questa seconda metà di secolo. Non è il caso di incensarsi troppo, perché non tutto ha avuto lo stesso esito fortunato, soprattutto per quel che riguarda l'edilizia pubblica, comprese certe chiese che resteranno a eterna memoria di una scelta poco intelligente e rispettosa. Ma di avere la contentezza di chi è arrivato alla fine del suo solco e guarda la tanta strada fatta. Significa che siamo un popolo sano, che ha tante risorse e qualità, anche se ci si ricorda di tirarle fuori solo nei momenti critici, ma questo è il destino dei mortali. quando don Checo diceva che "un popolo non muore per una disgrazia o per miseria, però può morire per troppa abbondanza", ci dava un grande conforto e un grande ammonimento,
Il segreto, se si può parlare di segreto e non di cervello, è stato quello della coralità dei responsabili e protagonisti. A tutti i livelli, Ognuno nella sua specifica competenza, ma tutti per un unico fine, al di sopra delle parrocchie ideologiche e partitiche. Una lezione che non può andare fuori moda, perché da ciò dipende la salvezza o la rovina: se tutti si lavora per un bene condiviso o se ognuno lavora contro l'altro. In questa coralità non sono saltate, ma si sono integrate le svariate componenti del tessuto sociale, Partendo dal basso, dalla gente, e non dall'alto. Perché accanto al sindaco e al deputato e al vescovo e al prete, della regione e del mondo del volontariato, il grande protagonista è stato il popolo friulano, la nostra gente.
Mi piacerebbe mettere in luce un altro aspetto, non meno esemplare e prezioso: la coralità, la globalità, l'armonia dei progetti e degli interventi. Una firma per l'università del Friuli, memoria vivente di tanto flagello, era sentita importante come un sacco di cemento o un mattone. Perché il Friuli doveva tornare rinascere intero e vitale e non una accozzaglia di case senza anima per un popolo senza speranza. Per questo ha fatto tanto fragore, anche fuori di qui, il documento dei preti: "Prima le fabbriche, poi le case e col tempo, se Dio vorrà, anche le chiese". documento che qualche superiore diocesano non ha avuto nessun fastidio a dargli la paternità, anche se era nato in una canonica carnica.
Ripetiamo allora, con convinzione e commozione, ciò che abbiamo cantato trent'anni indietro, con un altro spirito, nella maestà della basilica madre di Aquileia: "è il Signore il nostro aiuto, lui che ha fatto cieli e terra".

sabato 3 maggio 2014

18 La migliore propaganda

18 La migliore propaganda
Stando alle statistiche, la religione cattolica è la più grande dalle religioni organizzate. Si può dire che non c'è parte di mondo in cui non si trovi una presenza cattolica, magari a livello di semenza o di reliquia, e soprattutto la religione cattolica è conosciuta a livello planetario, anche in grazia della potenza dei mezzi di comunicazione. Se si pensa al gruppetto di cristiani che si radunavano nelle case per spezzare il pane al miliardo e passa di battezzati di oggi, si deve ammettere che se n'è fatta di strada e dunque si dovrebbe essere più che contenti. Eppure c'è qualcosa che non quadra e lo sentiamo anche noi. O almeno lo sentono le anime più riflessive, che non si accontentano dei numeri ma amano andare alla sostanza della questione. Lo sentono anche i responsabili della Chiesa, che cercano in ogni sistema di tenere vicino il gruppo variegato delle pecore poco ubbidienti e fanno salti mortali per ubbidire al comando di Cristo di andare fino all'ultimo angolo del mondo.
Cosa dobbiamo fare, per salvare questa cristianità che perde colpi da ogni parte, al punto che si parla di post-cristianesimo o addirittura di minoranza non sempre rispettata, come tutte le minoranze? Dobbiamo moltiplicare i documenti e i pronunciamenti, per fare conoscere che noi siamo nella verità? Dobbiamo rafforzare la struttura e l'organizzazione, in modo di arrivare per ogni nocca del corpo mondiale? Dobbiamo buttarci sulla grande comunicazione, oggi che, se non si comunica e non si è sul mediatico, non si esiste? Penso che, in una realtà complessa e complicata come la nostra, non si può scartare nessuna strada e sprecare nessuna briscola. Però mi sembra più giusto, anche se può sembrare ingenuo e banale, andare a vedere come la religione si è diffusa nei primi tempi, quando rischiava ogni momento di sparire per il fatto che era una semino piccolo circondato da sospetto e di ostilità. Come facevano quella volta, senza organizzazioni, strutture, visibilità, mezzi materiali, riconoscimenti e garanzie pubbliche?
Troviamo la risposta in quel libretto d'oro che si intitola "Gli atti degli apostoli". ci narra che i nostri padri e avi nella fede "erano saldi nell'ascoltare la dottrina degli apostoli, nel dividere e nel pregare" (atto 2, 42). Ma la cosa più scandalosa era che mettevano tutto in comunione; vendevano quello che avevano e ciò che ricavano dalla loro cosa lo dividevano fra tutti secondo ciò che serviva a ognuno" (44-45). Ma ciò che mi rincuora di più è sentire che avevano un "cuore contento e schietto" e che "la gente li vedeva di buon occhio". Anche facendo un po' di tare, tocca dire che non si poteva non restare esterrefatti davanti a questa gente che non aveva templi o vesti o cerimonie differenti dagli altri, ma era la loro vita ordinaria che era una rivoluzione. E la gente li guardava, li ammirava e rimaneva interdetta, perché troppo grande era il contrasto fra la loro vita e quella dei cristiani. Soprattutto pensavano che una religione che rivoluzionava loro la vita in quella maniera, che li sosteneva nelle contrarietà, che dava loro la forza di affrontare umiliazioni, discriminazione e perfino la morte per amore dal Signore doveva essere vera. Come non potevano restare indifferenti davanti alle parole che Pietro ha inciso sulla porta "bella" del tempio: "Non ho né oro né argento. Ti do ciò che possiedo: in nome di Gesù Cristo il Nazareno, cammina!" (3, 6). Una Chiesa che non ha né oro né argento ma una fede grande come le montagne non ti fa solo camminare, ma volare. Forse merita fatto un confronto, un esame di coscienza, un po' di bilancio. Se senza soldi e mezzi e conoscenze hanno conquistato forse il mondo, come mai adesso non solo non riusciamo a finire la loro opera ma stiamo retrocedendo?
Rimane il fatto che non è la nostra dottrina ma la nostra vita la miglior propaganda, anzi l'unica.

lunedì 28 aprile 2014

17 Come un agnello al macello

17 Come un agnello al macello
Una vecchia preghiera popolare della settimana santa recita: "figlio mio dilettissimo, madre mia dilettissima, che giornata sarà per voi Mercoledì Santo? Sarete come un agnello in macello". E non si poteva trovare paragone più indovinato e doloroso, più dolce e sconvolgente di questa bestiolina trascinata sul fior fiore della stagione astronomica e soprattutto della sua vita corta per essere uccisa, vittima innocente e incosciente, icona tragica e patetica di tutte le vittime della umana insensibilità e insanità. Peraltro il paragone coll' agnello di Pasqua è un dei pilastri portanti della tradizione biblica e della cultura ebraica e la Chiesa, da sempre, e ha sostituito o sovrapposto al musetto dell'animale il volto trasfigurato di Cristo, "il vero agnello che ha tolto il peccato dal mondo" (prefazione I di Pasqua).
Su questa raffigurazione e identificazione si sfoga la fantasia e la pietà di un padre della hiesa orientale, il vescovo Meliton di Sardi,nella sua Omelia di Pasqua (verso il 160-170), che gioca in un continuo fra la liberazione dei figli di Israele a opera di Mosè e dei fedeli a opera di Cristo e fra l'agnello e l'agnello. Cristo viene trascinato via come un agnello e ucciso come una pecora, per liberarci dalla schiavitù del diavolo come forse dalla mano del faraone. E' lui che ci tira fuori dalla schiavitù per la libertà, dal buio per la luce, dalla morte per la vita, lui la Pasqua della nostra salvezza. è lui che ha patito tanto in tanti di loro: è stato ucciso in Abele, è stato legato per i piedi e trascinato sull' altare in Isacco, ha conosciuta la profuganza in Giacobbe, è stato venduto in Giuseppe, è stato esposto lungo il fiume in Mosè, è stato accoltellato nell'agnello, è stato perseguitato in Davide e disonorato nei profeti. è lui che si è incarnato nella Vergine, appeso sul legno della croce, sepolto in terra e, risorto dai morti, è asceso nella gloria dai cieli. E' lui l'agnello senza voce, l'agnello ucciso, nato da Maria, la bella agnella, Catturato dal gruppo e trascinato al macello, sacrificato sul tramontare del sole e seppellito durante la notte. Sul legno della croce non è stato spezzato e sotto terra non è andato putrefatto, ma è risorto dai morti e ha resuscitato l'uomo dal sepolcro più profondo che si trovava.
Se il ragionamento e l'applicazione di Meliton sono fondati, si può dire che Cristo è stato deportato, venduto, torturato, violentato, umiliato, sfigurato nelle tragedie infinite della storia umana, dalla tratta dei neri ai gulag di Stalin, dai lager di Hitler ai campi di tortura di Mao, di Pol Pot e dai Balcani, dai maelli del Ruanda alle torture del medio oriente, Ma anche dal tribunale del malato degli ospedali, dai bambini abbandonati, nei vecchi soli, nei matti e nei detenuti. Se Cristo ha preso su di sé non solo il peccato del mondo ma anche il dolore, non c'è lacrima che non bagni il suo volto, non c'è ferita che non segni il suo corpo, non c'è peso fisico o morale che non pieghi la sua schiena fino a terra. E' questo pensiero che mi dà forza e serenità quando oltrepasso la porta dell'ospedale e mi distendo sul letto. E' lui che ci accompagna e si stende accanto a noi. Se Cristo spartisce il dolore del mondo, tutto il dolore del mondo e ogni dolore partecipa della missione redentiva di Cristo, una messa lunga come la storia e larga come il mondo. Di un valore uguale a quello di Cristo, ovvero infinito. E dunque il mistero insondabile e scandaloso del dolore, che è la sfida più grande all'esistenza e alla provvidenza di Dio, diventa la strada più dritta e sicura alla redenzione e alla salvezza. Un seminare nel tempo per raccogliere per l'eternità. Ma anche in questo mondo, se è vero che il regno di Dio è già iniziato.

domenica 20 aprile 2014

16 A scuola da Tommaso

16 A scuola da Tommaso
Forse i cristiani non si ricordano di tutti i particolari della resurrezione del Signore, ma anche i più digiuni e neutrali sanno che uno dei discepoli ha detto che, se non vedeva il segno dei chiodi e non metteva la sua mano nel costato del Signore, non credeva. Di fatto il nome di Tommaso, insieme con quel di Giuda, tutti lo conoscono, e la maggioranza restano edificati della sua prudenza, invece di restare mortificati dalla sua diffidenza. E così è nato il proverbio: "io sono come San Tommaso: se non vedo, non credo". Il vangelo riporta anche il soprannome di questo discepolo: "Dìdimos", che si può tradurre come "gemello" o anche come "doppio", nel senso di falso e instabile. In tutti e due i sensi può benissimo essere considerato "gemello" di ognuno di noi, così prudenti dove si dovrebbe credere e così avventati dove sarebbe bene essere più prudenti.
Mi sono domandato più volte, soprattutto davanti a tante manifestazioni di credulità immotivata e di incredulità preconcetta, se dobbiamo prendere l'esempio dal primo Tommaso nel chiedere la prova o se invece è più cristiano ripetere col secondo Tommaso: "Signore mio e Dio mio" (Gn 20,29). E' il rapporto dialettico e conflittuale fra le esigenze sacrosante della ragione e quelle non meno sante della fede. La ragione domanda prove e non può chiudere gli occhi, ma la fede non può fondarsi sulle prove, anche se per principio non deve fondarsi sull'assurdità.
D'altra canto tanto la ragione che la fede provengono da Dio, che si onora sia aprendo gli occhi e cercando le cause che chiudendo gli occhi e accettando il mistero. Direi che servono entrambi gli atteggiamenti. Basta adoperarli nel posto giusto. perciò nelle cose umane non si deve chiudere gli occhi ma si deve cercare il più a fondo possibile per avere il massimo di obbiettività e di chiarezza. In comune, in parlamento, in tribunale, nelle banche, nella vita sociale non devono esserci misteri e non si deve pretendere un atto di fede e tanto meno di adorazione. Si deve vedere, prima di credere. E vedere anche dove non si vorrebbe o non vorremmo. Vedere e tastare.
Invece nelle questioni di fede, dove la ragione non può provare e una prova materiale non direbbe proprio niente, si deve avere l'intelligenza di chiudere gli occhi e adorare. perché il reale è più vasto del razionale e la ragione non riesce a vedere tutto e tanto meno a spiegare tutto.
Direi che la fede è un dono da adoperare anche nelle robe di questo mondo, per vederle nella loro completezza e soprattutto per andare più in là o in alto del semplice dato razionale, che può essere insignificante, freddo e angosciante. Con gli occhi del corpo vedo una persona, un fatto, un caso, un puntino. Con gli occhi della fede, questa persona prende il volto di Cristo, questo fatto entra in una storia più grande, questo puntino trova il suo posto nel disegno di Dio, dove anche il nero e il negativo e l'inspiegabile o l'inevitabile trovano una loro giustificazione e positività. Solo con gli occhi della fede posso vedere la mano e l'opera di Dio e solo vedendo la mano e l'opera di Dio posso vedere nella dimensione più vera e globale.
Ma ci sono però momenti dove non si riesce a vedere proprio niente, perché la notte è troppo fonda e le tenebre troppo disperanti. E' soprattutto in quel momento che l'occhio della fede riesce a guardare nel buio, come i gatti, e a trovare l'orma e la strada di Dio anche nel garbuglio più annodato. E in quella volta solo uno che crede vedrà. Abbiamo peraltro la conferma della storia: solo quelli che hanno creduto in qualcosa di grande, sono riusciti a vederlo.

sabato 12 aprile 2014

15 Un frate poco fedele

15 Un frate poco fedele
Anche quest'anno si celebra la giornata delle anime consacrate. Temo però che tanta gente non si perderà a contemplare ammirata tanta santità, generosità e fedeltà, impegnata come è a sentire le ultime, poco edificanti (dis)avventure di p. Fedele Bisceglia, il frate di Potenza messo in prigione con una denuncia pesante e circostanziata di una suora.
I giornali e la televisione buttano fuori ogni giorno, come un rubinetto che spande, pezzi dalle telefonate indecenti che p. Fedele faceva a ogni ora dal giorno e della notte, a ogni genere di donne e adoperando ogni genere di vocaboli. Non potendo negare le intercettazioni, l'ha messa in burla e, in una sua memoria, ha scritto di essere perseguitato come Gesù Cristo e di meritare di essere fatto santo. Per dire il fegato del personaggio.
Che p. Fedele, dei Minori di S. Francesco di Paola, abbia fegato da vendere, lo dimostra tutta la sua carriera. Laureato in filosofia, teologia e medicina, è riuscito a creare un impero miliardario, fatto di chiese, scuole, strutture sanitarie, dove si mettono assieme persone di ogni fatta e più sono strambi e più sono adatti. La “perla” di p. Fedele è una pornostar convertita ed esibita come preda di Gesù Cristo in un disordine di trasmissioni televisive, dove il frate mostrava tutta la sua scaltrezza, arroganza e mancanza di misura. Di fatto la gente più seria rideva. Questa conversione spettacolare avrebbe dovuto diventare vocazione alla clausura in un convento dell' Aspromonte. Le cronache dicono che conduce vita notturna sui palchi di mezza Italia, con lo stesso mestiere di prima e con la pubblicità del frate.
Fra una corsa in Africa e una trasmissione, p. Fedele riesce anche a seguire la squadra di calcio del Potenza, come vicepresidente e come capo degli ultras. Un giocatore è scappato gridando che era inseguito da un matto vestito da frate. In realtà era proprio il frate che faceva il matto.
Non è il caso di proseguire con questa tragicommedia. Come per tutti, si vuole sperare che la giustizia si sbrighi a fare chiarezza e a dare serenità o alla suora o al frate, ma soprattutto alla gente della città e a tanti cristiani disorientati e nauseati. Ma dobbiamo chiederci come è che la cosa è giunta a quegli eccessi, perché nessun non ha avuto il cuore e l’onestà di fermarlo, di aiutarlo a stare nel suo posto, a onorare la sua tonaca e la sua regola. Noi preti ci chiamiamo “secolari” perché viviamo nel “secolo” o mondo, e abbiamo un vescovo che ci tiene d'occhio nel ben e nel male. I frati si chiamano “regolari” perché hanno la regola che impone loro, più dei preti, una vita riservata, spirituale, comunitaria. Possibile che nessun superiore gli abbia mai domandato da dove arrivava tutta quella pioggia di soldi, che non gli sia venuto lo scrupolo che il posto del frate non era negli studi televisivi o nelle curve degli esaltati, che non poteva un uomo normale correre in giro giorno e notte, in Italia e per il globo, senza compromettere la dimensione spirituale dalle sue giornate? Adesso è troppo tardi mettersi a gridare al tradimento e allo scandalo, dopo anni e anni di quella vita scatenata. O gli andava bene tutto quel giro di soldi e di gente e tutta quella popolarità?
Si sa che le regole religiose sono state scritte in un tempo passato e lontano e che bisogna armonizzarle alla vita di oggi. Si cambia ciò che è bene e giusto cambiare, ciò che non tocca la sostanza della vita consacrata. Ma lo spirito deve restare identico. Sembra invece che si tenga duro sulle cose esteriori, come la tonaca, il cordino eccetera, e si molli su tutto il resto, ben più importante. Confondere poi la modernità con la stupidità e la trasgressione è un cosa troppo orrenda per crederla.

sabato 5 aprile 2014

14 Contare i giorni

14 Contare i giorni
Questa volta mi tocca prendere in mano il libro santo per ragioni anagrafiche. Si colma un altro giro della mia esistenza avventurosa e venturata. L' 11 di febbraio, mentre a Roma brindano a ricordo del pasticcio concordato fra il papa e il duce e a Lourdes pregano a ricordo della apparizione della Madonna a Bernadette, compio 65 carnevali. E il libro mi ricorda di non cantare troppo da gallo, perché sono vicino all'età biblica: "Gli anni della nostra vita sarebbero settanta, e ottanta per i più forti" (Sal 90, 10).
Dovrei mettermi a ridere di contentezza, perché sono oltre ogni ogni più ottimistica previsione. dovrei sudare freddo, perché ho ancora poco da rosicchiare. Invece non faccio né questo né quello, ma mi siedo come il pellegrino lungo il fiume, a contemplare l'acqua che scorre. E' uno scorrere lento e inesorabile, ma finalizzato e benefico. L'acqua va verso il mare, verso la pienezza, e le sue sponde sono tappezzate di vita, di erba sempre fresca, di alberi frondosi. così anche io sto andando verso il mare della luce e della pienezza della vita e spero, magari illudendomi, di avere aiutato qualche anima a trovare serenità, freschezza e gusto di vivere. Non solo per i misteri che ho impartito per professione, ma anche per quel poco che sono riuscito a dare come uomo.
Mi accorgo, con sorpresa, che ho superato perfino l'età di mio padre, che vedevo già in età o addirittura anziano. Ma al mio solco l'età di tante persone che sono riusciti a farsi un nome per una ragione o o l'altra, nel campo della letteratura, della scienza, della umanità e, perché no?, della santità. "Se il somaro non fa la coda prima dei trenta, non la fa più" dicevano una volta. E io cosa aspetto a mettere la testa a posto, a concludere il lavoro che Dio mi ha dato da fare, a finire il mio solco? Il filo della memoria mi porta a tante persone che non sono più con noi. Quando si ha più gente di là che non di qua, c'è da pensare. Mi vengono in mente tanti amici preti, compagni di battaglia, più sani di me, che sono morti più giovani. A riprova che, fino a che non è ora, non si va. Ogni tanto qualcuno mi spara una dalle solite sentenze non richieste e non bramate: "Dura più un tegame rotto che non uno nuovo!". E può essere vero. Però rimane sempre rotta, sempre incerta, sempre a rischio. E può vivere anche più a lungo di una buona, ma e ha un'altra qualità di vita. "C'è vivere, vivere alla grande e vivacchiare" diceva la Maria da Vuiche. La precarietà, il non poter programmare, il vivere giorno per giorno o ora per ora può essere evangelico ma non è sempre facile. Un'aquila a cui hanno tagliato le ali non è che muoia, ma non può volare. E la malattia, soprattutto una malattia prolungata, cronica, invalidante, ti toglie una piuma al giorno, fino a che rimani spiumato del tutto. E' vero che si può volare con le ali dell'anima e del desiderio, ma non è sempre facile e non è la stessa cosa.
Giunto a questo punto, dico che mi ritengo, tutto sommato, fortunato. Non ho avuta una grande briscola, ma sono riuscito a giocarla sufficientemente bene. Con una bicicletta rotta e con poco fiato, sono riuscito lo stesso a fare sufficientemente strada. Più di ciò che pensavo e più di tanta gente con la bicicletta da corsa. Soprattutto ho avuta la grazia, almeno per adesso, che il male fisico non si è tramutato in male morale e dunque ho ancora una raggio di luce. Non faccio progetti perché non posso permettermelo. Mi accontento di ripetere la preghiera del salmista: "Insegnaci a contare i nostri giorni, e così potremo arrivare alla sapienza del cuore" v. 12).

sabato 29 marzo 2014

13 Un malato ai malati



13 Un malato ai malati
La Quaresima, col suo itinerario liturgico e spirituale, sta per finire, anzi per colmarsi nel tempo della passione e della morte dal Signore e mi trovo a vivere questo mistero di amore dolorante o di dolore amoroso, questo dover salire a  Gerusalemme per essere preso, condannato e ucciso e solo così entrare nella gloria. Ma se per qualche anno ho celebrato il mistero di Cristo come cosa bella, ma riguardante un altro, e dunque con un certo distacco anche psicologico, da un bel po' di di tempo sono preso dentro anche io in questo buio con poca luce, in questa difficoltà a trovare un può' di speranza e di voglia di tirare avanti. E  stento a capire e ad accettare la logica di tutto questo tribolare, il senso di questa vita con poco senso. Vedo la croce, la sento pesare sulle spalle, ma stento a vedere ciò che c'è dopo il Venerdì Santo.
Lo so di non essere da solo. Magari! Quando entro nell' ospedale, un giorno sì e un giorno no, trovo sempre pieno di altri cristi come me o peggio, ognuno con la sua croce, con la sua storia, con la sua speranza mista a disperazione. E questa situazione si moltiplica per migliaia e milioni di persone di ogni terra e cielo, di ogni provenienza e condizione. E' il mare di lacrime che trasporta la barca dell'umanità verso la patria definitiva, dove  "non ci sarà più la morte, né lutto né lamento né dolore, perché le robe di prima sono sparite" (Ap 21, 4). E il dolore e la morte sono cose di prima, di adesso, penultime e non ultime.
A questo esercito senza numero di fratelli, vorrei dire loro, malato a malati, di non pensare che la malattia sia la peggior cosa di questo mondo. E' dura, ma non è la peggio. La cattiveria, l'egoismo, la banalità, il sprecare la vita, il peccato sono parecchio peggio. Meglio un malato buono che un sano senza cuore. Meglio un paziente che un delinquente. meglio uno che non può camminare di uno che è paralizzato dall'interno, negli affetti, nella testa, nell'anima. Non sono i malati che rovinano la società, ma i sani che non sanno adoperare bene il dono della salute. Qualche volta, anzi spesso, la salute tira fuori il peggio di noi, come la prepotenza, l'invidia, la brama, la violenza. La malattia sa tirare fuori il meglio di noi e di tanta gente attorno a noi, come la pazienza, la solidarietà, la delicatezza, la profondità, la spiritualità. Ci sono arrivati più in cielo passando per il dolore che attraverso la salute, perché la malattia, il dolore fisico e morale sono la strada dritta per andare in cielo. è la strada di Cristo, del maestro e del fratello, dell'agnello innocente e paziente che carica sulle sue spalle il dolore e il peccato del mondo. Dopo di lui e con lui, ogni malato non è un condannato ma un privilegiato, non è un dimenticato ma un chiamato a stare più vicino al Signore per essere più vicino anche nella resurrezione. Mi piacerebbe poter ripetere con convinzione, anche se col groppo, le parole del Signore: "fortunati quelli che piangono, perché  saranno consolati" (Mt 5, 4). è la seconda "beatitudine", subito dopo la prima, quella dei poveri nello spirito, per il fatto che ogni malato è povero. Qualche volta di amici e qualche volta di speranza. Però è ricco di tempo, per riflettere, per pregare, per fare il viaggio lungo e impegnativo verso il suo profondo.
Davanti al male, si può bestemmiare o pregare. ci sono ragioni per ribellarsi e per mettersi nelle mani di Dio, come i bambini. Costa meno e rende di più. Si rischia di avere una forza e una serenità mai creduta. Si rischia di fare della malattia "un tempo di grazia" (Sal 69, 14), un seminare nelle lacrime per raccogliere con gioia (Sal 126, 5). Una primavera.

sabato 22 marzo 2014

12 Lungo i fiumi della nostra storia

12 Lungo i fiumi della nostra storia
Mi preparo a vivere la ricorrenza della nostra "festa nazionale" del 3 di aprile meditando su quel salmo 137, "lungo i fiumi di Babilonia – canto dell'esule", che è diventato l'icona più pregnante e dolorosa della dispersione e della disperazione di un popolo. Cosa sono quei fiumi o canali di Babilonia, dove i deportati ebrei hanno appese le loro cetre?
Sono i fiumi della Germania, dell'Ungheria, della Francia, della Svizzera, dell'America settentrionale e meridionale, dell'Australia e di ogni parte di mondo dove un tiranno non meno crudele di Nabucodonosor, la povertà e la fame, ha spinto migliaia, milioni di friulani e di altri poveri di ogni genere e cultura e provenienza. Un popolo seduto o disteso e non in piedi, perché in casa degli altri si va solo a servire e a prendere ordini e umiliazioni. Seduto a piangere. perché, a un certo punto, non ti resta più niente, solo il ricordo di una terra, di un cielo, di una patria, di una gente, di una lingua, di una cultura, di una identità che tu hai dovuto abbandonare e che speri di poterla riprendere per potere tornare a vivere. Perché dove sei non vivi , ma solo tiri avanti. E la prove di questa vita ridotta ai minimi, poco più di una speranza o una illusione, sono le cetre appesa sui salici, perché il cuore non canta più e la bocca può emettere solo un rantolo o un lamento soffocato.
"Se dovessi dimenticarmi di te, Gerusalemme, s'inaridisca la mia mano destra; la mia lingua si attacchi al palato, se di te non avessi più memoria" (137, 5-6). Senza un contatto vitale con la tua terra, con una terra e una identità, rimani come minorato e la lingua è come attaccata, perché non riesce a dire quelle parole che partono dal profondo della storia e dimostrano tutta la ricchezza di una cultura. E oggi questo si avverte ancora di più in questa dispersione collettiva, mondiale, globale, dove tutti si è spostati, sradicati, depauperati del proprio patrimonio, della propria identità, della propria personalità, che non si identifica più con un territorio ben definito, ma solo con una appartenenza spirituale e culturale precisa. Perché non si può vivere senza radici. E solo con le radici ben salde ci si può espandere e prepararsi al confronto positivo e confacente con altre culture e lingue.
Non sono contro l' italiano o l' inglese. proprio io che sono un amante, uno sfegatato delle lingue! Non sono contrario ad altre esperienze e confronti culturali. Magari potessi girare anche io, incatenato a una macchina! Dico solo che tutte le lingue e culture ed esperienze devono aggiungersi, non sostituirsi alla nostra. In modo da diventare più ricchi e non alienati.
Una parola schietta sui canti. "Ma come canteremo adesso i canti del Signore in una terra straniera?" (v.. 4). I nostri canti sono prima di tutto per noi, per sostentare la nostra anima. Non sono, non devono essere eseguiti per accontentare la curiosità degli stranieri. Meno ancora sono da cantare a pagamento, come gli indiani che si mettano le piume sulla testa per essere fotografati dai turisti e dai curiosi. Una lingua e una cultura non devono mai diventare folclore, carnevalata, evento per le sagre, attrazione da circo. Lo stesso vale per la messa e le liturgia in friulano. O diventa il pane quotidiano o è meglio che muoia. Meglio morire con dignità che vivere per fare pietà. Se il popolo friulano è giunto alla fine dei suoi giorni, ha tutto diritto di chiudere la sua storia, come vanno sparendo tante piante e animali. Io sono convinto che possa dire e dare ancora tanto. Ma deve farlo con dignità, per sé prima che per gli altri, da protagonista e non da comparsa.

sabato 15 marzo 2014

11 Una legge di libertà

11 Una legge di libertà
Il libro dell'Esodo è un libro fondamentale nella storia del popolo ebraico. Di fatto si pensa che sia stato realizzato per primo e solo a partire da lì si dipana la coscienza e la storia del popolo ebraico liberato della sottomissione al faraone. Non è un caso che, proprio in questo libro della liberazione, venga riportato il fatto di Mosè che, sulla montagna del Sinai, riceve dal Signore le "dieci parole" o "comandamenti" (Es 20, 1-17).
Perché Dio, dopo avere nutrito il suo popolo con le quaglie e la manna e dopo avere spento la sua sete con l'acqua della roccia, fa anche il regalo della legge? Perché, "l'uomo non vive solo di pane e, ma di tutto ciò che esce della bocca del Signore" (Dt 8, 3). E la parola di Dio, la sua legge, è "un faro" per il suo piede, "una lanterna" per il suo sentiero (Sal 119, 105). Dio regala la sua legge prima che il popolo giunga nella terra della promessa perché non si può pensare di costruire una struttura familiare, sociale, politica, economica se prima no si ha ben chiaro ciò che si intende fare. Come le fondamenta vengono prima della casa e la tengono salda. Pensare che una comunità locale, statale, internazionale possa tenere duro e maturare senza una legge, una etica, uno spirito, è una illusione che si pagherà con lacrime di sangue. I rabbini aggiungono che la legge è stata data nel deserto, luogo di nessuno, per dire che la legge di Dio o legge naturale non è esclusiva di un popolo ma è fatta, nella sua essenzialità, per tutti i popoli, che possono farne un punto di riferimento e di colleganza.
Ma torniamo al concetto di libertà e di legge. Come mai Dio, nel momento in cui il suo popolo assaggia la libertà, si affretta a dargli le regole, le coordinate, i principi? Legge e libertà non sono in contrasto, in opposizioni, perché la legge mi toglie la libertà? E' una obiezione si sente dire tuttora e si sentirà dire sempre di più in questi tempi di "auto realizzazione" e di emancipazione da ogni forma di trascendenza. Al punto che, per tanti, la libertà è proprio la possibilità di sfidare, di contrastare la legge. Sono libero proprio perché posso andare contro la legge, a partire della legge morale e religiosa.
In realtà non è così. Perché la legge è un regalo per l'uomo, come è per il viandante la segnaletica o il parapetto. sono messi per aiutarmi a restare in strada, a non uscire, a non perdermi. La prima libertà non è fare il male e tutto ciò che è proibito, ma stare guardati dal male e scegliere le cose belle e buone. La libertà è come la salute. Si nutre di robe positive. La malattia è una limitazione per l'uomo, come il peccato è una diminuzione. L'uomo sano, che non conosce il male, non è un disgraziato ma un fortunato. Così l'uomo che non conosce la cattiveria, l'egoismo, il male e il disordine morale non è un uomo mancato, ma un uomo rifinito, completo. E questo vale anche nel campo sociale. Liberarsi dal faraone, dal prepotente, dal tiranno può essere facile e gratificante. Ben più importante però è liberarsi di quel faraone che ci comanda, ci umilia, ci condiziona, ci ricatta, ci paralizza dall'interno. Quel faraone, quel potere cattivo e corrosivo che si chiama il male. La storia, anche recente, ci ha dimostrato che non basta cacciare via un padrone, un sistema totalitario, per essere liberi. Bisogna liberarsi ogni giorno della parte negativa di se stessi. Più sei libero mediante la legge morale e più sarai forte nel resistere alla prepotenza degli altri. La legge morale è la strada e la condizione per la libertà