lunedì 30 dicembre 2013

10 La confessione dell’abate Pierre

10 La confessione dell’abate Pierre 

A 93 anni, Henri Grouès, conosciuto in tutto il mondo come abate Pierre, ha pubblicato un libro-intervista intitolato “Mon Dieu, pourquoi?”, dove si pone le grandi domande sul perché della vita e della morte. Ma ciò che più ha interessato i lettori, e scandalizzato buona parte del mondo ecclesiastico, sono le pagine che il frate dedica alla sua vita sentimentale, alle pulsioni sessuali che lo tormentavano nella sua vita celibataria e a cui lui qualche volta ha ceduto, anche se senza legami profondi. Rimaneva insoddisfatto perché non poteva avere quelle relazioni stabili che nascono dall'amore e questo non gli era permesso dal voto di castità a cui lui cercava di restare fedele il più possibile. E non voleva fare patire le donne che spartivano con lui queste esperienze. Partendo da questi ricordi lontani, come un testamento, l’abate Pierre si dichiara per l'abolizione del celibato obbligatorio dei preti, per il sacerdozio delle donne, per il matrimonio dei divorziati e per l’unione delle coppie omosessuali, che lui propone di chiamarle “alleanza” per differenziarle dal matrimonio tradizionale. Le reazioni sono state tante e contrapposte. Nel mondo lontano dalla Chiesa, l’adesione e la comprensione è stata calda e totale. Nel mondo ecclesiastico si è preferito tacere, perché non si poteva approvare la confessione dell’abate e neanche la sua visione morale. Il cardinal Lustiger, per salvare morale e carità, ha detto che a novantatré anni si perde qualche colpo. Ma un luminare gli ha risposto che, se l’abate Pierre si fosse battuto per il celibato dai preti, lo avrebbero portato a esempio. Il perché di queste reazioni è evidente. Non si tratta delle sparate dell’ultimo prete o frate anticonformista, ma di una dalle personalità più grandi a livello mondiale, un uomo che può presentare a garanzia la sua esperienza straordinaria di testimone della libertà e della carità. Nato nell'alta borghesia di Lione, ha rinunciato a tutto per farsi frate; è entrato nella resistenza, rischiando la vita per salvare gli ebrei perseguitati. Dal 1945 al 1951 è stato deputato della Lorena. Dal 1954, davanti ai cadaveri di una madre e del suo bimbetto morti di freddo, ha deciso di dedicare la vita alla gente senza casa, fondando il movimento di Emmaus. Insignito della Legione d’onore, è una delle voci più alte del mondo in difesa dei poveri e per la campagna profetica contro gli armamenti e la violenza. Nella Francia laicista, è il più conosciuto e rispettato. Se si dovesse fare un confronto, sempre odioso, siamo a livello di madre Teresa di Calcutta con, in più, la sensibilità e la sensibilizzazione sociale e politica. Un testimone, dunque, che passerà alla storia come un apostolo della carità e un santo sociale. Le questioni avviate dall’abate Pierre sono grandi e vanno affrontate con calma, lucidità, umiltà e libertà, sempre meglio affrontarle, magari facendo arrabbiare qualche benpensante, che rinnegarle o rimuoverle. Tanto, torneranno fuori sempre più frequenti e impellenti. Mi interessa però un altro aspetto. La grandezza e l’umiltà di quest’uomo che, giunto alla fine di un’esistenza avventurosa e fortunosa, poteva tacere sulla sua vita privata e invece ha confessato la sua umanità e fragilità, rovinando e compromettendo per sempre la sua immagine. Non lo faranno mai santo. Lo ringrazio per avere dato speranza a tanta gente, anche preti e frati, che non hanno rispettato sempre la promessa fatta, ma che lo stesso hanno cercato di fare del bene e lo hanno fatto.
A quelli che si sono stracciate le tonache scandalizzati, dirò che non solo non sono intelligenti e liberi, ma non sono neanche cristiani. Perché la religione ci dice che la virtù più grande, splendida, unica del cristiano non è la castità, ma la carità. E che Dio non guarderà se abbiamo le mani pulite, magari vuote, ma se le abbiamo colme di opere di bene, anche se sporche e piene di screpolature

domenica 22 dicembre 2013

09 Nella miseria di ogni uomo

09 Nella miseria di ogni uomo
Ancora una volta "è comparsa la bontà di Dio nostro salvatore e il suo amore per gli uomini" (Tt 3, 4) e noi ci prepariamo a vivere, nel mistero e sotto i veli sacramentali, questo evento unico. Un evento che ha rivoluzionato la storia, riconsacrato la terra, ricreato il genere umano. Di fatto la storia non è più, o non dovrebbe essere, la civiltà o inciviltà degli uomini senza o contro Dio, ma il loro percorso con lui, diventato Emanuel, Dio con noi, Dio come noi, Dio per noi. Non più una storia maledetta, ma una storia sacra, un sentiero di santità. La terra, divenuta ostile a Dio e inospitale per l'uomo, torna a essere il luogo della sua presenza e dunque è terra santa, riscattata, purificata dal suo sangue e fecondata dalla sua grazia.
Ancora una volta celebriamo il mistero di quel Dio che non solo crea il mondo, non si accontenta di contemplarlo nella sua bellezza, ma pianta la tenda nel nostro deserto, viene "in casa sua". Ma, aggiunge Giovanni, "i suoi non lo hanno accettato" ( Gn 1, 11). è questo incontro sempre desiderato e mai concluso, questo rincorrersi come innamorati che non arrivano a prendersi e non arrivano a stare da soli, questo arco iniziato e mai chiuso il mistero del Natale. Un mistero di luce ma anche di buio, di brama ma anche di ripulsa. E la liturgia, nella sua forza sacramentale, ci dà ancora una volta la possibilità di incontrarlo, di contemplarlo, di invitarlo a casa nostra, nella culla del nostro cuore.
Peccato che un'occasione così splendida e forse irripetibile, con tante che ne abbiamo oramai sprecate, rischi di diventare l'ennesima commedia, dove tutto si risolve in lampadine colorate, mucchi di panettoni, regali stupidi, canzoni dissacranti e banali. Natale festa dell'esclusione, invece di festa dell'incontro. Natale festa dell'evasione, invece di festa di un'autentica incarnazione nel nostro cuore e nel mondo.
Bisogna tornare a l'essenzialità, alla sacralità, alla serietà del Natale, altrimenti è meglio abolirlo come hanno fatto Fidel Castro e i suoi compagni dittatori. almeno in quei paesi si aveva la brama della festa, invece dell'assuefazione e della nausea. Di fatto i grandi consigli che vengono dati in questi giorni su ogni pulpito mediatico, non sono di fermarsi nel silenzio della propria coscienza a fargli largo un cuore carico e disordinato, ma come mettere vicino il cenone della veglia e il pranzo del giorno. La grande questione non è di riempirsi di luce e di avere l'anima leggera e contenta, ma di mettere su qualche chilo e arrivare a mandarlo giù a celebrazione finita. Una questione di dieta, di calorie, di linea, più che di fede, di religione, di conversione.
Tutto questo clima di luce artificiale, di addobbo esteriore, di consumismo smodato, di falsa allegria, rischia di umiliare, emarginare, fare patire ancora di più quelli che sono i primi, e gli unici, destinatari della buona nuova del' angelo: i poveri, i piccoli, quelli senza nome, senza storia, senza dignità, senza avvenire, condannati a una eterna insignificanza.
Eppure il Natale è e rimane la loro grande occasione di essere consolati e gratificati. Natale non è il Natale del panettone, ma di quelli che sono senza pane e. non è il Natale dalle pellicce, ma di quelli che tremano di freddo. Non è il Natale dalle strade inondate di luce artificiale, ma di quelli che si tirano vicino l'uno all'altro, in una cova, facendosi luce e scaldandosi con una candela. Non è il Natale dei fortunati, ma dei falliti. E Dio guarderà le loro lacrime, più che le nostre facce pasciute. Intanto che noi ci riempiamo di presepi e di bambinelli, il figlio di Dio va a cercare l'ultimo angolo sociale e umano e li, solo li, ripete il grande miracolo. E' nella miseria di ogni uomo che il figlio dell' uomo cerca e costruisce la sua casa benedetta.

domenica 15 dicembre 2013

08 Figli del concilio



08 Figli del concilio
La Chiesa ha celebrato, l' 8 di dicembre, i quarant'anni della conclusione del Concilio Vaticano II. Per combinazione, la mia classe si è trovata a studiare teologia una situazione psicologica curiosa: studiavamo cose che si sapeva o si sperava che le avrebbero cambiate e non avevamo sotto mano le novità. Di fatto abbiamo quarant'anni di messa, la stesse età del concilio. Ma, se non ci arrivavano i documenti, ancora in gestazione, ci giungeva l' eco di quella cosa grande che stavano facendo a Roma, dove una Chiesa, gelosa e ossessionata della sua tradizione, stava assaggiando un clima nuovo di libertà e di pluralismo, una autentica rivoluzione. Una rivoluzione profonda, non di facciata, una conversione radicale nei rapporti tra Chiesa e mondo. Quello che si chiamava e si sentiva come "lo Spirito del concilio".
Per la  Chiesa, abituata a misurarsi con i secoli, quarant'anni sono un tempo sufficientemente corto per mettere in opera un concilio. Soprattutto se si pensa che il concilio di Trento (1545-1563), è durato per quattro secoli e dura tuttora. Ma quarant'anni sono anche una eternità, come il tempo che i figli di Israele hanno vissuto fra la liberazione dall'Egitto e la sistemazione nella terra promessa. Soprattutto se si pensa all'accelerazione dei nostri tempi, dove in una generazione si vedono più novità che nei secoli precedenti. E' per questo che qualcuno domanda un nuovo concilio, mentre altri  chiedono più pazienza. E, come sempre, le strade si dividono e le opinioni si contrastano. Chi esalta la fedeltà della Chiesa, soprattutto gerarchica, al concilio e chi grida al tradimento, chi parla di primavera e chi di autunno, chi sente il soffio dello spirito che continua a soffiare e chi sente vento pesante e stagnante di restaurazione. Come sempre, ci sono ragioni pro e contro.
Personalmente, per quello che può valere il giudizio di questo figlio del concilio, anche se ultimo, dico che non si può parlare di tradimento, perché non è stato tradito niente, ma di ridimensionamento e di ripensamento. Un poco per colpa della paura dei reazionari e un poco per colpa di quelli che, con troppa fretta e con poca intelligenza, si sono accontentati della novità esteriore del concilio, con qualche stramberia e banalità. Mi riferisco alla distruzione di un patrimonio splendido come la tradizione musicale e liturgica latina per lasciare il posto al niente. O la fretta di girare l'altare verso la gente senza preoccuparsi di girare la testa e il cuore. O di tradurre nelle lingue del popolo senza trovare una nuova formulazione dal mistero.
Ma ciò  che trovo più preoccupante e deludente è che è sparito lo Spirito del concilio, la passione per la Chiesa e della Chiesa per il mondo, la stima profonda e la simpatia genuina per tutto ciò  che Dio opera nella storia degli uomini. Una Chiesa che non ha grande fiducia nella maturità e responsabilità degli uomini. Abbiamo ancora una Chiesa autoreferenziale e sempre in cattedra a mettere voti come una maestra zitella, più che come una nonna che  guarda con simpatica ironia ciò che combinano i nipoti. Per non dire della poca udienza che ha il popolo di Dio, rimasto spettatore e fruitore di ciò che combinano in alto, ma non attore e protagonista. Per non parlare dei vescovi e delle conferenze episcopali e dalle grandi assemblee continentali, che dipendano sempre di più da una curia romana rinforzata e accentratrice come mai.
Sono partito con il desiderio di quel disordine creativo dello spirito che getta al vento le carte piene di (santa) muffa e mi trovo alla fine della mia carriera con pacchi di avvisi e pronunciamenti su tutto e di tutto, come i bambini di asilo. Ma niente m'impedisce di pensare a quel evento come a un fatto provvidenziale e di sentire la nostalgia di quella stagione così grande, anche se corta come tutti i sogni.

domenica 8 dicembre 2013

07 La consolazione di Dio



07  La consolazione di Dio
Il profeta tipico della speranza e il grande cantore dell’ Avvento è Isaia. In realtà gli esperti  dicono che non si tratta di un solo autore, ma di due o addirittura di tre. Il "Deutero-Isaia" o secondo Isaia inizia la sua profezia con le parole che poi hanno dato il titolo a tutto il libro, chiamato "Libro della consolazione". Inizia così: "Consolate, consolate il mio popolo, dice il Signore. Incoraggiate il cuore di Gerusalemme e fatele sapere che la sua schiavitù è finita, che la sua colpa è scontata, perché ha ricevuto dalla mano del Signore  doppia punizione per tutti i suoi peccati" (Is 40, 1-2).
Credo che la fede, la religione, la Chiesa abbiano un compito solo, una sola funzione e missione: consolare il popolo di Dio che, con l'incarnazione del Signore e la sua redenzione, è diventato il mondo intero. La Chiesa deve gridare fino a che le viene la gola secca che il Signore vuole bene al mondo., che non abbandona gli uomini anche se loro abbandonano lui, che lui troverà sempre il modo di farli uscire dalla loro malattia o morte fisica o morale, perché è un Dio terapeuta, un Dio che guarisce e ci dà vita. Addirittura riesce a portare la vita nel luogo costituzionalmente senza vita, il deserto. Di fatto nel deserto Dio chiede di aprire una strada. Per dire che lui non conosce limiti alla sua creatività e fantasia.
Che il mondo intero, e ognuno di noi, abbia bisogno di consolazione, non è il caso di sprecare tempo e parole. Lo sentiamo, lo vediamo, lo proviamo ogni giorno. Che la vita sia un tormento e la terra una valle di lacrime non è una novità legata al consumismo o alle follie massmediatiche. Il male è sempre esistito e ci accompagnerà fino alla fine. E noi dobbiamo consolare gli uomini. Non col sentimentalismo o la banalità del "Coraggio! Speriamo che cambi!", ma predicando in tutti i toni e in tutti i luoghi che  sta giungendo, anzi è già arrivato quello che carica sulle sue spalle il peso del nostro vivere e del nostro combattere e soprattutto il peso delle nostre colpe individuali e collettive. Il figlio di Dio viene a prendere sulle sue spalle non solo la pecora malata, ma anche la pecora cattiva e la cattiveria assoluta, ovvero il "peccato". Consolare significa confortare, dare forza, rinvigorire le braccia stanche e le ginocchia ballerine. Non significa togliere il peso del vivere, ma dare la forza per affrontarlo in maniera positiva e salvifica.
Ma perché Dio, invece di chiederci di consolare il suo popolo calpestato e tribolato, non toglie il male fisico e morale? Non può? Non vuole? E' l'eterna domanda che  tormenta gli uomini sul mistero di Dio, I rabbini cercano di dare una risposta ricorrendo al paragone del padre e della madre. Un padre e una madre sono liberi di non mettere al mondo i figli ma, una volta che li hanno messi al mondo, non sono più liberi di non voler loro bene e di non sopportarli quando li fanno morire di crepacuore. Anche Dio era libero di farci, ma adesso non è più libero e, davanti alla nostra cattiveria, mancanza di gratitudine e di cervello, si tira in parte, si ricava un angolino tutto per se, dove  piange sulla nostra brutta condizione e sul suo fallimento. Per questo una lettura differente di Isaia dice: "Consolatemi, consolatemi, popolo mio". Anche Dio ha bisogno di consolazione e di conforto. E anche noi, poveri vermi della terra, possiamo non solo chiedere la consolazione di Dio, ma consolarlo. Come ogni figlio avveduto e di cuore che riempie di lacrime gli occhi del genitore. Ma di lacrime dolci.

martedì 3 dicembre 2013

06 Se tu strappassi i cieli

06 Se tu strappassi i cieli
L'Avvento è il tempo dello sperare e dunque il tempo di quelli a cui manca qualcosa, che aspettano qualcosa o qualcuno. Non è il tempo dei pasciuti o dei troppo pasciuti, ma di quelli che sono affamati e assetati, che vivono una situazione umanamente dolorosa, per non dire disperata. La speranza cristiana ha proprio questa connotazione specifica: non si basa sul fatto che le cose vanno bene, ma sul fatto che le cose vanno male. Che le robe non vadano bene, almeno dal punto di vista morale e spirituale, è tanto chiaro e tanto evidente che solo un prevenuto o un cieco o un superficiale può metterlo in dubbio.
Ritrae molto bene la situazione dei suoi tempi, che e può essere anche la nostra, il profeta Isaia, il grande cantore dell'Emanuel, della speranza personificata, divinizzata e umanizzata. "E noi tutti eravamo come impuri, e tutte le nostre opere buone come un panno macchiato: e tutti noi cademmo come foglie, e le nostre iniquità ci portavano via come il vento. Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si scuoteva per appoggiarsi a te " (Is 64, 5-6).
Ai fanatici del ottimismo banale, agli sbandieratori del "tutto va bene", il profeta mostra la cruda realtà. le nostre bandiere sono come quegli stracci che, nella nostra infanzia, le nostre madri e nonne rattoppavano fino che il punto teneva e che palesavano più di ogni discorso e indagine sociologica la nostra condizione sociale. Con la differenza che la nostra povertà era dignitosa, perché era pulita. In più noi non eravamo colpevoli, ma vittime. La sporcizia di cui parla il profeta è la sporcizia del cuore prima che dell'abbigliamento. Si tratta di una sporcizia morale, di un infezione che ci prende e ci tormenta dall'interno, una sorta di marciume interiore. Siamo sporchi perché non siamo giusti, non siamo buoni, ci siamo allontanati da quell'acqua benedetta che pulisce e ricrea. Per ciò siamo come quelle foglie che il ventaccio crudo del autunno porta via senza remissione.
Allora ti viene voglia di gridare, come ultima speranza o utopia: "Se tu strappassi i cieli e venissi giù!" (Is 63, 19). Se Dio facesse il miracolo di strappare una volte per tutte quel velo che ci divide dal assoluto, dal definitivo, dal vero, dal santo! Se il mondo è così malmesso, con tanto gente che geme e soffre, con tanta cattiveria incrociata, perché non fa un passo, l'unico che serve e basta? Perché non squarcia i cieli e non viene a vedere di noi come farebbe qualunque padre e madre?
In realtà i cieli sono già stati strappati e lui è già venuto giù a vedere di noi. L'Avvento è la celebrazione e l'attualizzazione di questa venuta. Ma allora cosa non ha funzionato? Non basta strappare i cieli. ci dice chiaro e tondo Gioele, che leggeremo nel primo giorno di quaresima: "Squarciate il vostro cuore, non i vostri abiti e ritornate dal Signore, vostro Dio" (Gl 2, 13). Bisogna che si apra anche il cuore del uomo e del mondo. Altrimenti Dio rimane fuori ed è come se non fosse mai sceso giù. Non serve a niente celebrare la venuta del Signore, se non riesce a entrare nel nostro cuore. "Andiamo contenti incontro al Signore!".

martedì 16 luglio 2013

05 Un chicco di frumento nel deserto



05 Un chicco di frumento nel deserto
L'hanno ucciso a tradimento il primo di dicembre del 1916, nella sua tenda nel deserto, una parte di secessionisti, che risentivano dei contrasti che stavano insanguinando l'Europa durante la prima guerra mondiale. Qualche anno prima aveva scritto: "Pensa che tu devi morire martire, senza niente di niente, disteso per terra, nudo, che non riusciranno a riconoscerti, tutto coperto di sangue e di ferite, ucciso di morte violenta e dolorosa". Doveva trascorrere quasi un secolo, un secolo di guerre innominabili e di rivoluzioni inimmaginabili, perché questo chicco di frumento vedesse riconosciuta dalla Chiesa in maniera ufficiale la sua santità. Un santo dell'altro secolo proclamato all'inizio di questo. Eppure mai come questa volta si tratta di un santo attuale, proponibile come esempio oggi più di ieri, una dalle figure più splendide e provvidenziale per questo inizio di millennio.
Il visconte Charles Eugène della Foucauld, nato a Strasburgo il 15 di settembre del 1858, da una famiglia della grande nobiltà francese, ha avuto tutto, ma è stato segnato da due perdite importanti. Ha perduto presto i genitori e, sull'aprirsi della vita, la fede. Da li è iniziata un'esistenza disordinata. e vuota. Spendeva e spandeva con le compagnie più sballate, al punto che la famiglia ha dovuto metterlo sotto tutore. Entrato nella carriera militare e mandato in Algeria, la sua condotta fu così scandalosa che l'obbligarono a scegliere fra lasciare l'amante o l'Esercito. Preferì lasciare l'Esercito. Stanco e nauseato, inizia a domandarsi se questa è una vita da fare. Intanto ritorna in Africa a esplorare il Marocco, meritandosi la medaglia d'oro della società Geografica di Parigi. E' in questo periodo della sua vita, nel 1886, che Charles, aiutato dal abate Huvelin, si converte in maniera radicale: "Appena ho creduto che esiste Dio, ho capito che non potevo vivere che per lui". Si tratta di trovare la strada che Dio gli domanda per vivere la nuova stagione. Gli sembra che la cosa fondamentale è di vivere l'umiltà e la povertà di Cristo a Nazareth, una intimità continua con lui. E' la spiritualità del perdersi, del nascondersi, dello  sprofondarsi, del lasciarsi morire per Cristo. Entra nei trappisti, poi va in Siria, e in terra santa, poi si fa ordinare prete. Il suo amore per la gente del deserto lo riporta in Africa, in Marocco, nel deserto del Sahara. E a Tamarasset, da solo, una tenda che gli serve da chiesa, da casa e da ambulatorio, sempre aperta a tutti quelli che vogliono entrare, si consuma l'ultima parte, la più feconda della sua vita. Contemplazione, assistenza ai tuareg, esplorazione e descrizione della loro vita e della loro cultura. E' suo il prima dizionari tuareg-francese. Senza nessun prurito di proselitismo, in gratuità assoluta e radicale, come un chicco di frumento disperso nella immensità del deserto. Non ha lasciato alcuno scritto organico, solo qualche spunto di riflessioni e preghiere. La semenza sparsa da frère Charles inizierà a germogliare anni e anni dopo la sua morte, nei Piccoli fratelli e nelle Piccole sorelle di Gesù sparsi per il mondo, cercando di mettere la più grande straordinarietà interiore nel più grande anonimato esteriore.
L'attualità di frère Charles sta nella gratuità, nello sciogliersi nel mondo e al mondo, nell'eliminare ogni apparenza insidiosa e sterile per privilegiare la sostanza, nel rinunciare alla conquista della società lasciandosi conquistare dalla società, nel presentare un cristianesimo inchiodato e apparentemente impotente e non un cristianesimo d'assalto, arrogante e apparentemente vincente. Un cristianesimo minoritario come numero e forza, ma evangelico e sostanzioso. Ma la novità più grande è la maniera di affrontare il rapporto con le altre religioni, in particolare i musulmani. Aveva provato con le baionette dell'Esercito francese, attirandosi l'odio. Ha scelto il rapporto dell'amore e del servizio. Forse è la strada più giusta e più attuale.

martedì 2 luglio 2013

04 Un friulano in Benecija



04 Un friulano in Benecija
La storia dei rapporti fra i responsabili della Chiesa Udinese e la gente della Benecija non è dalle più esaltanti. I momenti più difficili sono due. Il primo avviene sotto il fascismo, col picco del 1933, quando i preti subiscono una autentica persecuzione perché  sostengano una cultura che, per le concezioni ignoranti e villane del regime, è inferiore e indegna della sacralità romana. Il secondo momento inizia con la fine della guerra e ha la sua radice ideologica nel confine fra il mondo occidentale, filo americano, e quello orientale, filo sovietico. Per tanti papaveri democristiani, succeduti ai fascisti ma infettati dallo stesso nazionalismo, parlare in sloveno significa essere comunisti, titini e antipatriottici. I preti originari delle vallate vanno sparendo per ragioni anagrafiche e vengono sostituiti dai friulani. Preferibilmente da quelli meno sensibili ai diritti culturali sacrosanti di quelle popolazioni.
In questo quadro desolante, può capitare che in qualche paese le cose siano ancora più complicate per ragioni contingenti. E' il caso di Liessa, dove una campagna denigratoria ha obbligato il vicario don Arturo Blasutto, di Monteaperta di Taipana, di 42 anni, a ritirarsi per sempre a casa sua, con grande dolore e disonore. In realtà, come conferma il brigadiere di Clodig, "Se don Blasutto parlasse in italiano, non avrebbe nessuna accusa". Bisogna mandare un prete che non abbia nessuna mania filo slovena. Secondo una sua linea caratteristica, il vescovo Zaffonato preferisce la pastorale della blitzkrieg: un salto e via. Con preti giovani, che fanno il loro garzonato e poi tornano in Friuli. Per invogliarli e aiutare economicamente, li farà tutti preti. Sotto mano ha un prete di 30 anni, pieno di vita e di iniziative, rimasto a piedi perché è morto il prete. Così don Azeglio Romanin, di Qualso, dopo avere servito con passione il prete di Sedegliano mons. Gattesco, affronta l'avventura della Slavia, pensando, come tutti, che si tratti di una parentesi. Invece il destino, o la provvidenza, ha voluto che rimanga per 44 anni, dall' 8 di dicembre del 1961 al 5 di novembre del 2005, quando un male che non perdona lo ruba alle sue comunità di Liessa e, col tempo, di Topolò e di Cosizza. La sorpresa di don Azeglio non è solo nel fatto che non tornerà più in Friuli, ma che riuscirà a radicarsi del tutto nella sua nuova comunità, incarnandosi con cuore e anima, intelligenza e volontà. Può starci che anche lui, giungendo con la sua 1100 in quel paese fuori dal mondo, abbia pensato: "Dio, in che parte di mondo mi hanno mandato!". invece quel mondo fuori dal mondo è diventato il suo mondo, la terra della sua anima. E quella lingua che, come tutti, aveva deriso in seminario, è divenuta un tesoro da tramandare ai figli. Lo ha lasciato per testamento: "Non dimenticate le vostre radici, soprattutto i canti del Avvento, di Natale, di Quaresima e della Pentecoste. Nelle loro strofe raccontano e spiegano il mistero. Insegnateli anche alle generazioni di domani". Si è ripetuto con lui il miracolo capitato al vescovo e martire Arnulfo Romero, che è andato per convertire il popolo e invece è stato il popolo a convertire lui. Nel senso di sovvertire la visione della vita e la pratica pastorale.
Sulla sua attività nel circolo Recano, sul suo dinamismo, sulla sua passione per la Chiesa e per l' uomo, sulla sua sensibilità missionaria per la gente della Tanzania non è il caso di spendere parole. Basta dire che, negli ultimi anni, ha adottato e sostenuto negli studi oltre 40 giovani. Missionario del mondo intero abitando in un paesello fuori dal mondo. Mi piacerebbe che la gente della Benecija, con la testimonianza di questo prete onesto e contento, ci perdonasse in parte quel grande debito che noi preti friulani abbiamo accumulato nei loro confronti.