mercoledì 28 marzo 2012

13 Gioia e allegria


13 Gioia e allegria

Le chiese più fornite dovrebbero avere, se qualche prete stupidotto non si è affrettato a bruciarla, una pianeta di colore violetto, a metà fra il viola e il rosa, da adoperare solo due volte al' anno: la terza di Avvento e la quarta di Quaresima, nelle domeniche “Gaudete” e “Laetare”, dalle prime parola dal messale.
San Paolo dice: “state sempre lieti nel Signore, lo ripeto: siate lieti. Il Signore è vicino” (Fil 4,4). Isaia grida: “Rallegratevi con Gerusalemme, ed esultate con lei, voi tutti che l'amate. Gioite con lei di vera gioia, voi tutti che per essa faceste il lutto” (Is 66,10).
Ma si può, in coscienza, indossare il colore della contentezza in un contesto come il nostro, con i paesi di vecchi e di case sprangate, con i bambini che si contano sulle  dita, con i giovani che la domenica mattina (quelli che a arrivano a saltare fuori dal letto ) aprono la bocca solo per chiedere soldi, da mangiare o per sbadigliare? Si può ridere con una televisione che prima ti fa piangere con le disgrazie e poi con le stupidaggini? Con questa insicurezza politica, fatta di liti e di prepotenza, dove vince chi possiede più parlantina e potere di ricatto?
Una volta hanno chiesto a Paolo VI perché non rideva mai. E lui rispose: “E perché dovrei ridere?”.
Forse bisogna fare un discorso più profondo e più cristiano. Inizierei con la differenza fra la gioia, la contentezza e l' allegria.
L'allegria è qualcosa di superficiale, di passaggio, come le onde dal mare; la gioia è qualcosa di profondo, come la profondità dal mare, che resta intatta anche nella più grande burrasca. L'allegria è legata a una sensazione; la contentezza a una situazione. L' allegria, soprattutto lo sghignazzare smodato, è legato al corpo nella sua dimensione più materiale. Difatti uno che ha mangiato ed è pasciuto inizia a straparlare e, se ha bevuto un bicchiere in più, si dice che è allegro. Più che stare bene, sembra stare bene. La gioia invece è legata più alla dimensione spirituale dell'uomo. Non parte dallo stomaco o dalla pancia, ma dall’anima. Non ride la bocca, ma ridono gli occhi. Non canta la bocca, o non è quello l’essenziale, ma canta il cuore.
Chi è  pasciuto e ben abbeverato e grida in maniera volgare rischia di fare patire quelli che gli stanno vicino, soprattutto se non stanno bene, mentre l’anima contenta e discreta fa stare bene tutti, iniziando da quelli che stanno male. Perché è una trasfusione di spirito. Nella mia vita ho visto gente accontentarsi anche se aveva tutte le ragioni per lamentarsi, come ho vista gente che rideva ma col cuore disperato.
La spia più chiara di un popolo sono i canti. I canti friulani sono sempre contenuti e con una punta di malinconia. Il nostro popolo non era sempre allegro, ma aveva una sua contentezza, una gioia dell’anima. Difatti cantava. Adesso possiede forse più allegria, più confusione, ma è  meno contento. Difatti non canta.
Si è allegri quando si ha; si è contenti quando si è. Perché un cristiano, un friulano può essere contento? Perché il Signore  è vicino. Lui che aggiunge dove noi non arriviamo e aggiusta e raddrizza quando le cose non vanno. Se il Signore vuole premiare un popolo gli manda la contentezza del cuore, che proviene con la fatica, col combattere, col seminare, col sperare. “Fortunati quelli che piangono, perché saranno consolati”.
Un cattivo e un pasciuto possono ghignare o ridere, ma solo uno buono può essere contento. Meglio piangere veramente che ridere stupidamente.

giovedì 22 marzo 2012

12 Solo l’amore dà diritto di pascere


12 Solo l’amore dà diritto di pascere

Un tempo come quello di Pasqua doveva essere illuminato da un pezzo consolante come il capitolo 10 di San Giovanni, quello del Buon pastore.
Come tanti, anche io ho vissuto da bambino l' esperienza della campagna e degli animali e dei pastori. Una visione che abbiamo condito di poesia arcadica, mentre invece il contesto è di fatica e di dolore. Difatti il vangelo non dice che il buon pastore va a spasso per i  prati accompagnato dal rotolo delle pecore, con tanto di zampogne, di uccelli che cinguettano e di agnelli che saltellano. Un contesto per il qualunque ecologista metterebbe firma. Invece il buon pastore cammina davanti alle pecore per segnare loro la strada, per scoprire le pozze d'acqua e gli spiazzi di verde e per affrontare i nemici. Un pastore che dà la vita per le sue pecore.
Il vangelo insiste sul rapporto personale, di conoscenza e affetto, fra il pastore e le pecore, “che non andranno mai dietro ad un forestiero ma scapperanno lontane da lui, perché  non conoscono la voce degli stranieri”.
Ho avuta la fortuna di vedere con i miei occhi l’ambiente da cui Gesù ha ricavata questa parabola: il deserto. Ho visto il gregge delle pecore attorno al pastore, sicure della sua sicurezza. Ho pensato al pericolo di allontanarsi o di perdersi. Ho pensato alle ore eterne della notte, quando il pastore e le pecore si stringono assieme per riscaldarsi e per ripararsi, confondendo il fiato e i battiti del cuore. Ho pensato allo spasmo del pastore che si accorge che gli manca una; al suo correre affannoso gridando nel silenzio della notte. Mi sono immaginato ciò che deve provare il suo cuore quando sente gemere la sua bestiolina matta e sfortunata e il battito spasimato della pecora quando sente una voce cara fra mille altri.
La Bibbia, quando parla di pastori, intende i re. La tradizione cattolica intende i preti e i vescovi e il grande pastore, il papa. Neanche voglio immaginare che questa gente si permetta di nutrire senza coscienza e senza affetto, pone come condizione di fondo la conoscenza personale. Se non si conosce, non si può nutrire; se non si nutre, non si può essere pastori. Non l'ho  detto io; lo ha detto Lui. Ci riflettano quelli che intendono fare i pastori di diecimila o centomila persone o di quattro paesi.
Se la conoscenza personale e l’affetto sono il  fondamento del diritto di nutrire, allora i pastori più veri sono i genitori. Nessun come loro, anche oggi, non conosce, non combatte, non cammina davanti, non consuma la sua vita per i  suoi figli. Sono loro quelli che si avvicinano di più alla immagine di Cristo. E, insieme con loro, quelli che più si avvicinano al loro modo di nutrire e di sacrificarsi.
Vorrei anche mettere in luce che le pecore sono del Signore. Difatti Gesù domanda per tre volte a Pietro se gli vuole bene e, a ogni risposta umile e positiva, gli risponde: “pasci i miei agnelli. pasci le mie pecore” (Gn 21,15-17).
Anche oggi Cristo ripete la domanda e aspetta la risposta. solo dopo consegna le sue pecore: i figli ai genitori, gli scolari al maestro, i malati al medico, i cristiani ai preti, i cittadini agli amministratori. Assieme alla virtù specifica per ogni categoria, anzi prima, Cristo domanda se gli vogliamo bene. Lui ha voluto tanto di quel bene alle sue pecore che ha dato la vita per loro. Non può permettersi il rischio di darle in consegna a gente che non gli offre la prima, insostituibile garanzia: un amore che si sacrifica.

mercoledì 14 marzo 2012

11 Solo i poveri camminano

11 Solo i poveri camminano

Sto meditando sul mistero della notte santa, che è stata spartita dalla luce accesa a Betlemme nella umiltà di un serraglio per pastori e animali.
La religione è circondata di mistero, è mistero. E il mistero si veste di simboli, che ci danno una chiave di lettura e un segnale. Per questo nella liturgia il simbolo rimane centrale e va salvato nella sua genuinità e nella sua trasparenza.
Anche il vangelo per simboli. Anche il presepio è  un simbolo, una chiave per avvicinarsi al mistero.
Leggendo il vangelo di Luca (2,8-20) e guardando il presepio si vede che mancano tante categorie di persone, soprattutto quelle che solitamente, nella storia umana (o disumana), sono in prima piano; invece hanno una parte di protagonisti quelli che solitamente sono solo comparse o vittime della tragicommedia umana. Sto parlando dei preti, dei guerrieri e dei ricchi da una parte e dei pastori dall' altra.
Non sono tanto stupido o ingenuo da spartire la bontà e la cattiveria in base al modulo delle tasse. Ci sono poveri carogne come ci sono ricchi coscienziosi; c'è gente che non ha niente ed è egoista e gente che ha soldi ma riesce ad adoperarli con coscienza e liberalità.
Voglio andare più a fondo, nel cuore dalle persone. Anche le beatitudini chiamano fortunati i poveri nello spirito (Mt 5,3). poveri sono quelli distaccati dalle robe del mondo, che non si fondano su di una forza materiale ma ripongono nel Signore tutta la loro fiducia. Povertà e libertà sono sinonimi.
Però è chiaro che la povertà di soldi e di mezzi umani è la strada più dritta per la povertà spirituale. I poveri non possono farsi illusioni, per quello è più facile che si mettano in viaggio, a cercare.
I preti non sono andati a cercare il Signore perché erano sicuri di averlo o lo cercavano nei libri. Ma un Dio teologico non vale un Dio di carne. I ricchi non lo cercavano perché avevano già un loro Dio ed erano troppo impegnati a trafficare e a contare palanche. E poi, piuttosto di avere un Dio esigente e alternativo a mamone (Mt 6,24), mille volte meglio stare senza. I soldati avrebbero stonato troppo davanti al principe della pace. Gli unici adatti erano i poveri pastori: gli unici che vegliavano e gli unici disposti a affrontare il freddo della notte per cercare una luce.
In quei passi silenziosi dei pastori vedo la processione dei poveri, le trasmigrazioni dei popoli che hanno attraversato la notte infinita della storia per cercare un pezzo di pane e, una spanna di sottotetto, un po' di libertà, un'oncia di dignità. O notte eterna dei poveri e dei disperati, unica vera notte e unica che merita di essere illuminata dalla luce liberante e consolante di Cristo! O passi benedetti dei poveri, che da sempre camminate senza mai fermarvi, perché inesauribile è la fame e sete di giustizia e di dignità che vi spinge! I ricchi si fanno portare; i preti preferiscono stare seduti a studiare o inginocchiati a pregare. Solo i poveri camminano sempre. per riscaldarsi e per cercare.
Signore, non castigare i poveri togliendogli la speranza e la voglia di cercare. Solo vedi di loro, perché sono sempre a rischio. Chi è nel buio, va ovunque trova luce, come le falene che volano verso la luce e restano bruciate. Signore, non castigare l' eterna illusione dai poveri con eterne delusioni.

mercoledì 7 marzo 2012

10 Dalla morte la vita


10 Dalla morte la vita

Se i bambini di scuola non avessero vacanza, credo che nemmeno si accorgerebbero che siamo a Pasqua. E neanche i grandi, che pur devono avere memoria di un tempo di funzioni e di messe a raffica, non è che si impressionino molto. L’unica che ho sentito è stata questa: “Accidenti! Eravamo a Natale lo scorso giorno e adesso siamo già a Pasqua”. poco per non dire niente.
Inutile prendermela con la gente. Proverò a cercare il perché di questa “dignitosa indifferenza”. Prima di tutto si tratta di un mistero. E i misteri è meglio lasciarli a Dio. Poi sono presi da mille robe immediate che tolgono loro il senso del tempo e dei valori invisibili. E per ultimo, ma non proprio ultimo, metterei che nemmeno noi preti abbiamo scaldato il loro cuore e illuminata la loro vita con una verità così straordinaria che ci riguarda tutti, anzi tutto il creato. Pasqua è un evento cosmico.
Non abbiamo predicato con convinzione, quasi tremando, la verità straordinaria che la vita ha vinto sulla morte. Non lo abbiamo gridato con la bocca e tanto meno con la vita.
Non si può ridurre il mistero di Pasqua a una confessione e a un santino. Peggio ancora, non si può banalizzarlo invitando “a essere più buoni”. ciò vale per tutto l’anno. E non ha senso dire che il cristiano deve essere sempre “contento come una Pasqua”. allora Ollio e Stanlio dovremmo farli santi.
Pasqua non è poesia ma dramma; non è una verità fatta per consolarci ma per scrollarci l’acqua dallo stomaco. Non è la soddisfazione di quello a cui va sempre bene, ma la ribellione di una umanità che non può accettare che l'ultima parola sia la morte, la sconfitta, la fine. Allora saremmo veramente disgraziati.
La Pasqua è legata col Venerdì Santo e con la croce. è la illuminazione della croce, la soluzione del problema del dolore, la risposta scandalosa allo scandalo della morte. Non si può parlare di Pasqua come  si parla dal tempo, perché ha la stessa drammaticità della morte. Difatti la liturgia parla di un duello fra la morte e la vita; l’ultimo e l’unico duello che merita d'essere combattuto
La Pasqua non toglie il dolore nè la morte. Le dà la risposta che Dio ha dato al grido di Cristo sulla croce quando si sentiva abbandonato. La Pasqua va vista e predicata in questo contesto. Quando Dio sembra che sia più lontano dall'uomo, gli è  più vicino di sempre. Perché la vita nuova che Dio ci regala si lega con la morte a cui la natura ci condanna. Un nodo che non si può e non si deve sciogliere.
Allora anche in questo Friuli di gente vecchia, di bambini che non nascono, di case che si chiudono, è  giusto gridare la resurrezione. Perché siamo in una cornice di morte.
La Chiesa non deve fare campagne terroristiche o demografiche. Deve gridare senza sosta la verità della resurrezione. Urlarla, non spiegarla Anche se nessuno ascolta. Anche se la deridono. Ma gridarla intera, nel suo significato più vero, non pastrocciarla di sociologia o di psicologia religiosa. Pasqua è la morte che partorisce la vita, contro ogni logica.
E gridare forte la resurrezione della carne. In Aquileia, quando dicevano di credere “la resurrezione di questa carne”, si mordevano la mano, tanto per non restare nell' astratto. La Chiesa non ha altra missione, altra ragione di esistere che questa: urlare la resurrezione. con gioia e con paura, come le donne che ritornavano dal sepolcro. Perché in questo mondo la fede terrà sempre per mano il dubbio,