giovedì 22 marzo 2012

12 Solo l’amore dà diritto di pascere


12 Solo l’amore dà diritto di pascere

Un tempo come quello di Pasqua doveva essere illuminato da un pezzo consolante come il capitolo 10 di San Giovanni, quello del Buon pastore.
Come tanti, anche io ho vissuto da bambino l' esperienza della campagna e degli animali e dei pastori. Una visione che abbiamo condito di poesia arcadica, mentre invece il contesto è di fatica e di dolore. Difatti il vangelo non dice che il buon pastore va a spasso per i  prati accompagnato dal rotolo delle pecore, con tanto di zampogne, di uccelli che cinguettano e di agnelli che saltellano. Un contesto per il qualunque ecologista metterebbe firma. Invece il buon pastore cammina davanti alle pecore per segnare loro la strada, per scoprire le pozze d'acqua e gli spiazzi di verde e per affrontare i nemici. Un pastore che dà la vita per le sue pecore.
Il vangelo insiste sul rapporto personale, di conoscenza e affetto, fra il pastore e le pecore, “che non andranno mai dietro ad un forestiero ma scapperanno lontane da lui, perché  non conoscono la voce degli stranieri”.
Ho avuta la fortuna di vedere con i miei occhi l’ambiente da cui Gesù ha ricavata questa parabola: il deserto. Ho visto il gregge delle pecore attorno al pastore, sicure della sua sicurezza. Ho pensato al pericolo di allontanarsi o di perdersi. Ho pensato alle ore eterne della notte, quando il pastore e le pecore si stringono assieme per riscaldarsi e per ripararsi, confondendo il fiato e i battiti del cuore. Ho pensato allo spasmo del pastore che si accorge che gli manca una; al suo correre affannoso gridando nel silenzio della notte. Mi sono immaginato ciò che deve provare il suo cuore quando sente gemere la sua bestiolina matta e sfortunata e il battito spasimato della pecora quando sente una voce cara fra mille altri.
La Bibbia, quando parla di pastori, intende i re. La tradizione cattolica intende i preti e i vescovi e il grande pastore, il papa. Neanche voglio immaginare che questa gente si permetta di nutrire senza coscienza e senza affetto, pone come condizione di fondo la conoscenza personale. Se non si conosce, non si può nutrire; se non si nutre, non si può essere pastori. Non l'ho  detto io; lo ha detto Lui. Ci riflettano quelli che intendono fare i pastori di diecimila o centomila persone o di quattro paesi.
Se la conoscenza personale e l’affetto sono il  fondamento del diritto di nutrire, allora i pastori più veri sono i genitori. Nessun come loro, anche oggi, non conosce, non combatte, non cammina davanti, non consuma la sua vita per i  suoi figli. Sono loro quelli che si avvicinano di più alla immagine di Cristo. E, insieme con loro, quelli che più si avvicinano al loro modo di nutrire e di sacrificarsi.
Vorrei anche mettere in luce che le pecore sono del Signore. Difatti Gesù domanda per tre volte a Pietro se gli vuole bene e, a ogni risposta umile e positiva, gli risponde: “pasci i miei agnelli. pasci le mie pecore” (Gn 21,15-17).
Anche oggi Cristo ripete la domanda e aspetta la risposta. solo dopo consegna le sue pecore: i figli ai genitori, gli scolari al maestro, i malati al medico, i cristiani ai preti, i cittadini agli amministratori. Assieme alla virtù specifica per ogni categoria, anzi prima, Cristo domanda se gli vogliamo bene. Lui ha voluto tanto di quel bene alle sue pecore che ha dato la vita per loro. Non può permettersi il rischio di darle in consegna a gente che non gli offre la prima, insostituibile garanzia: un amore che si sacrifica.

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