mercoledì 27 giugno 2012

26 La precarietà, prima beatitudine


26 La precarietà, prima beatitudine

Hanno detto, persone più esperte di me, che basterebbe salvare il discorso della montagna (Mt 5-7) per avere tutto il vangelo in riassunto. E di questo discorso dolce e radicale, consolante e rivoluzionario, basterebbe salvare le Beatitudini, che sono il cuore del cuore.
E' una lista di gente che, nella mentalità corrente di oggi, ma anche in quella dell' epoca di Cristo, non fa nessuna invidia. Solitamente la gente li guarda con indifferenza; qualcuno si spinge fino alla pietà, ma credo che nessuno  abbia voglia di imitarli. Eppure i poveri, gli afflitti, i buoni e i puri di cuore, quelli che perdonano e combattono per la  pace, contenti anche di ricevere mortificazioni e sberleffi, sono “fortunati”.
Fortunati o furbi? Forse anche furbi, ma di una furbizia rovescia, come è rovescia e alternativa la visione della vita che possiede Cristo rispetto alla nostra. Una furbizia che rischia il tutto per tutto, ma tutto in base a una promessa, lasciando l’uovo sicuro per la gallina in forse. Cristo li definisce “beati”; noi saremmo più sui “poveri” o disgraziati, gli ultimi di questo mondo che saranno i primi in quell' altro, ma per adesso ultimi.
E fra gli ultimi che hanno diritto di essere primi, fra i beati che dovrebbero essere beati, faccio il sacrilegio di completare la lista di Cristo con un’altra beatitudine: la precarietà.
I precari esistono anche nell'amministrazione dello stato ma solitamente arrivano alla pensione. Quei precari a cui mi riferisco io sono quelli che non possono programmare niente e vivono giorno per giorno non per vocazione di perdigiorno ma perché la vita stessa non gli dà nessuna sicurezza. Una volta, nella loro povertà, i nostri vecchi potevano anche fare quattro conti, covare una qualche speranza, mirare qualche progetto o affare. Se non avevano soldi, avevano salute, in più avevano il capitale dei figli e soprattutto vivevano in un sistema di sicurezze, che  permetteva loro di guardare avanti o almeno di poggiare i piedi sul sicuro.
Oggi tutto questo è cambiato. non esiste, né a livello personale né collettivo né locale né internazionale, un punto di riferimento culturale, economico, psicologico. Se ci sono, sono contradittori e non valgono né per tutte le persone né per tutti i momenti. Si è come su di una barca, dove si può sperare di non affondare ma non si può fare a meno di ondeggiare e di avere la testa che gira. Gli avi hanno avuto i loro problemi, ma noi non dobbiamo sentire nessun senso di inferiorità nei loro confronti, perché  oggi i fastidi sono maggiori e le soddisfazioni minori.
Il vangelo, nell' invitarci a vivere giorno per giorno senza diventare matti per il domani, ci porta come esempio gli uccelli del cielo che non mietono e i fiori del prato che non tessono. Non ho nessuna paura a portare, come esempio, tanta gente, di ogni età, che ogni giorno deve affrontare una nuova avventura Un vecchio da solo, un padre e una madre con un figlio disabile, una donna col peso della casa tutto sulle sue spalle, un invalido, uno che possiede l’abbonamento per l' ospedale e per il medico, un ragazzo già destinato a rimanere scapolo, un paese di anziani senza osterie e botteghe e comodità e bambini, che illusioni possono farsi? Se arrivano a non disperarsi, a non perdere la voglia di fare, a trovare nella grama monotonia una qualche serenità, non sono di diritto nella lista dei “fortunati”? Una lista che si allunga sempre di più, con la complessità di oggi. Lo spalancare ogni giorno la finestra su di un mondo che non ti offrirà niente non è meno grande e significativo del salmodiare che perfora le tegole centenarie di un convento.

mercoledì 20 giugno 2012

25 La montagna del Signore


25 La montagna del Signore

“Alzo i miei occhi verso le montagne”. quante volte ho pensato a queste parole del salmo in queste giornate di caldo? Ma il mio interesse per le montagne è più profondo e vitale e da quando sono arrivato nella prosaicità della pianura friulana, che i maestro di spiritualità collegano con la mediocrità e la tiepidezza, i miei occhi guardano spesso in su, in alto, verso la catena dalle montagne che, come una mano immensa, stringono affettuose e sicure questa nostra benedetta terra friulana.
Il fatto è che io lassù ho le mie radici. Da lassù, dalle montagne guardiane, proveniva mia nonna Sostasio frazione di Prato Carnico. Da lassù, dalle montagne di Avaglio frazione di Lauco, proviene mia madre. Lassù, su la montagna di Plauris, mio padre e il padre di mio padre  hanno sacrificato gli anni più belli della loro povera vita. E inoltre, sotto la Tersadia, è cresciuta la gente dal mio primo amore.
La montagna come punto di riferimento, come punto fermo in un mondo in cui tutto gira a una velocità al limite dell' insopportabile. E la montagna è li, che ti saluta nel partire e ti aspetta nel tornare, lei che ha nutrito i tuoi padri e che farà lo stesso con i tuoi figli. Nessuna meraviglia allora che   nella Bibbia la montagna sia portata come esempio dell' eternità e dell' eterna fedeltà di Dio. La montagna è grande ma non fa paura e se anche non ti puoi permettere grandi confidenze, ti dà un senso di fiducia. Anche se non appartiene a nessuna generazione, perché le nutre e le sotterra tutte, ognuna la sente contemporanea e l'ammira e gode come una cosa sua.
La montagna, nel suo mistero, fa da ponte fra cielo e terra. Difatti le sue radici si perdono nella profonda oscurità della terra e la sua punta sfida l'immensità del cielo. Per questo gli antichi le hanno sempre considerate la dimora degli dei e anche Mosè è salito sù in alto per ricevere la legge.
Guardandola da lontano, sembra morta e senza vita, a differenza dal mare in eterno movimento. Se però ti avvicini, trovi una varietà infinita di piante ed erbe e animali e colori e odori. E ti regala anche il profumo delicato di un fiore e il canto dolce e fantasioso di un uccellino. Per non parlare della vita che si svolge sotto terra, la più straordinaria, che non conosce riposo.
La gente cresciuta su di una montagna è differente da quella cresciuta nella vastità immensa della pianura. è più discreta, radicata, prudente e malfidente, legata alle sue idee e fedele nelle amicizie e nei rancori. Dove i paesi sono al sole, avrai gente aperta e chiacchierona e dove sono nell'ombra  saranno più taciturni. perché la montagna non è solo madre del corpo ma anche dell' anima e del temperamento della sua gente. per questo, quando emigrano hanno l'impressione  di morire e quando tornano i loro occhi e il cuore riprendono a ridere.
Il libro Santo, dovendo parlare dei misteri del regno e dell' eternità, ha scelto la parabola della montagna. Difatti è posta in alto perché tutti le vedono, e richiede fatica a salirla come ogni cosa è seria e ti dà la visione globale, relativizzata e contraria delle cose come ce l'ha Dio. Solo lassù si poteva apparecchiare la tavolata eterna, dove i primi a sedersi e a ristorarsi saranno i poveri e i buoni.
Oh montagna eterna, oh eternità delle montagne! Chi potrà salire la montagna santa? “Quello che cammina nell' onestà, che pratica la giustizia e nel suo cuore dice la verità” (Sal 15,2). Ma anche i cattivi avranno a che fare con le montagne. Quando gli diranno: “Cadete sopra di noi!” (Lc 23,30).

mercoledì 13 giugno 2012

24 La luce e il suo testimone


24 La luce e il suo testimone

Le vicende mortali di Cristo e di Giovanni il Battista si incrociano al principio e alla fine. Non so se questo è storico o intenzionale; in ogni caso è significativo. La loro nascita ha come cornice l’angelo, il dubbio e l’accettazione, i fatti sunsurôs e due canti di ringraziamento e di meditazione sulla misericordia di Dio: il “Magnificat” di Maria e il “Benedictus” di Zaccaria. Per combinazione anche i luoghi dal Magnificat e dal Benedictus sono vicino, ad Ain Karin.
Dopo un' infanzia misteriosa e ritirata, tutti e due si presentano sulla scena del mondo ai margini della storia, nel deserto. Giovanni che indica e Cristo che realizza; Giovanni che prepara la strada e Cristo che è la strada; Giovanni testimone della luce e Cristo luce per ogni uomo; Giovanni amico dello sposo e Cristo sposo. E i due cugini si complimentano uno con l'altro. Giovanni chiama Cristo “l’agnello che toglie il peccato dal mondo” e Cristo  chiama Giovanni “il più grande fra i nati da donna”, anche se il più piccolo dal reame è più grande di lui, dal momento che per Cristo la funzione ha senso solo se accompagnata da una santità adeguata.
Giunto Cristo, l’unico, Giovanni comprende che è giunta l’ora di tirarsi in parte, per non fargli ombra. “Lui deve crescere e io devo calare” dice con grande dignità. E questo “crescere” e “calare”, seconda gli orientali, ha determinato le date liturgiche delle loro natività. Cristo nasce nel solstizio d’inverno, quando il sole, contro  l' evidenza, prende forza e cresce. Giovanni invece nasce nel solstizio d’estate, quando il sole, contro l' evidenza, perde vigore e cala. Difatti i fuochi dell' Epifania e i fuochi di San Giovanni non hanno lo stesso significato, anche se  sembrano uguali.
Il cristiano deve mirare a riprodurre in sé la persona di Cristo. La strada più giusta è di iniziare a riprodurre in sé San Giovanni, il testimone e il precursore.
Della pagina pregna di poesia e di significati che Luca  dedica alla nascita di Giovanni, mi piace soffermarmi sulla domanda della gente della Giudea: “Che ne sarà di questo bambino?”. domanda legittima e inquietante che ogni madre e ogni padre si sono posti e si pongono ogni volta che si trovano davanti al mistero e alla sorpresa di una nuova nascita. Compresi i genitori di Giuda e quelli del più grande santo.
Il destino di un bambino dipende da Dio. è lui che destina tutto ciò che è creato secondo un suo disegno incomprensibile. Dunque non avrebbe senso porsi la domanda. Ma posto che Dio opera mediante degli uomini, dobbiamo domandarcelo, per la parte che ci compete.
La domanda devono farsela i genitori ma anche il prete e il maestro e la gente dal paese. perché il destino di un bambino non è mai individuale. E così la sua crescita.  Dipende da tutti noi farlo crescere bene, completo, in armonia fisica, psicologica, culturale, morale e spirituale. Così una crescita fortunata delle nuove generazioni sarà il più bell'attestato e premio per le generazioni precedenti. Come una crescita parziale, disarmonica, mostruosa sarà la nostra condanna davanti a Dio e alla storia.
Più che lamentarci che nascono pochi bambini,  dovremmo chiederci che cosa facciamo perchè crescono bene quelli che ci sono. Se non siamo all’altezza, Dio non li manda. Perché ha pietà di loro, e non li mette nelle mani di gente impreparata e inaffidabile, e di noi, perché non vuole  ancora di più il peso della squalifica più umiliante.

mercoledì 6 giugno 2012

23 La “grande Serbia” dei triestini


23 La “grande Serbia” dei triestini

Puntuale come l’ora di cena, la televisione ci presenta le ultime notizie della guerra in Bosnia, che non sono più neanche novità. Difatti la violenza ha battuto ogni film “horror” e anche la liturgia internazionale, con le sue inutili riunioni e risoluzioni, ha stancato. Di nuovo c'è solo l’insistere pericoloso e discutibile del papa sulla guerra giusta. Di chi e contro chi? Allora mi prende un senso di impotenza. Posso solo biascicare, pregare, pensare. E il pensiero mi porta nella mia situazione concreta italiana e friulana e mi accorgo, con terrore, che la violenza non è esclusiva della carognità serba, selvaggi da sempre, ma di realtà che parlano si vantano di grandi tradizioni di civiltà e tolleranza ma che nei fatti non sono migliori rispetto agli altri.
Parlo della politica italiana da un secolo in qua e dell' arroganza triestina, di quando hanno imbastito la regione, nei confronti dalle minoranze (che qui da noi sono maggioranze) friulana e slovena.
Se là stanno facendo pulizia etnica, per fare sparire ogni originalità e diversità culturale e religiosa, che nome si deve dare alla politica di uno stato e di una regione che semplicemente hanno cancellato una nazionalità facendo finta che non esista e dunque che non può vantare diritti? Dov'è una scuola, una stampa, una televisione, una chiesa friulana e slovena?
Già il mettere insieme una città, Trieste, con una regione, Friuli, significa condizionare il destino di un popolo a quello di una realtà differente e straniera è un delitto non meno grande delle arlecchinate jugoslave, ma in tutti questi anni la nostra terra è stata umiliata, sacrificata, emarginata con ogni sistema, di modo che il piccolo è diventato grande e il grande è diventato piccolo. In nome dell'unità regionale, ciò che arrivava per Trieste rimaneva a Trieste e ciò che arrivava qui si doveva spartirlo con loro. Anche i soldi del terremoto.
E per il principio della non concorrenzialità, noi friulani  non abbiamo diritto di avere ciò che hanno loro triestini ma loro possono avere senza di noi varie cose, come agevolazioni, teatro, radiotelevisione e via dicendo. Anche la messa della domenica. Noi abbiamo diritto solo alla cronaca nera e ai nomi storpiati.
Ma torniamo al progetto della “grande Serbia”, che tanta ingiustizia sta seminando. Trieste, per darsi una patina di giustificazione, ha inventato la Venezia Giulia che, come tutte le cose false (vedi il patriarcato di Venezia invece di Aquileia), hanno finito col' avere più forza e diritti dalle vere. Difatti i giuliani ricevono, per le attività culturali e di propaganda, molti più soldi di tutti i friulani messi assieme. In più, i nazionalisti triestini si battono per i diritti degli esuli italiani dalla Jugoslavia e non accettano che gli sloveni d' Italia abbiano il loro stesso trattamento. Non contenti di avere coinvolto il Friuli in una situazione  suicida, adesso i triestini mirano a rosicchiare il Friuli pezzo per pezzo, iniziando da Monfalcone passando per Gorizia e Cervignano, con la segreta speranza che il delitto si tramuti in diritto e la rapina in operazione di normalizzazione. Come in Bosnia.
A questo punto mi immagino già la domanda: “Che paragoni fai? Dove sono i morti e il sangue e la violenza?”. Lo so che non è la stessa situazione ma la tecnica non è diversa. Prima di tutto non è detto che la legge e la politica  siano meno pericolose dei fucili e delle bombe. E poi il vangelo dice che si deve avere più paura di quelli che uccidono l’anima, la cultura, l' identità, lo Spirito. Difatti si vede più vita in Bosnia fra un sparo e l'altro che non in tanti dei nostri paese in un giorno di festa.
La pulizia etnica ha avuto successo.