mercoledì 12 dicembre 2012

50 Zelinda

50 Zelinda
La bella stagione che sta giungendo mi porta il ricordo di Zelinda, sepolta qualche mese addietro in una giornata di sole, lei che era stata luminosa in tutta la sua vita. Avevamo appena celebrato la prima comunione e ho voluto lasciare la chiesa come in quel giorno. Per due ragioni.
Prima di tutto perché Zelinda, con la sua umiltà, serenità, innocenza, aveva conservata l’anima bambina fino a 89 anni. E dunque, come ci dice il vangelo, aveva diritto a entrare nel regno di Dio con questo titolo di precedenza Inoltre la prima comunione è solo un’ombra, pallida e sbiadita, della grande comunione della morta. Difatti nella comunione il Signore si presenta nel mistero, velato nel pane e, mentre la morte strappa il velo e toglie il mistero. Per questo è la vera comunione.
Rimasta vedova e con i figli emigrati per il mondo, come tutti, trascorreva le sue giornate lavorando come una formichina o un'ape. Sempre intenta a fare qualcosa: pulire la casa, vedere dalle sue bestioline, un salto nel cimitero, la messe e soprattutto i fiori e l’orto, la sua grande passione.
Non aveva specie rare ma i suoi vasi fiorivano un attimo prima di quelli degli altri, perché lei sapeva trovare per ogni fiore la sua porzione di luce e il riparo giusto. E nell' orto nessuno riusciva a batterla riguardo a viole e iris. Dio, quante qualità e che colori!
Io mi sento un poco suo parente, perché ha rifornito anche me. Quando mi ha dato i mazzetti delle sue viole, l'ha fatto con una grazia e una contentezza che non mi esce dagli occhi e dal cuore. Si sentiva come in dovere per il fatto che io avevo preferito la sua povertà e avevo onorato le sue creature, a cui lei perfino parlava. Così ogni volta che vedo fra le aiuole due occhi di viola, devo pensare agli occhi sereni e liberi di Zelinda.
I suoi occhi erano chiari e sereni anche perché li aveva lucidati col dolore, per la perdita di persone care anche giovani e per la perdita della salute.
Ma finché ha potuto ha lavorato. Quando l'incontravo sull'aiuola le chiedevo: “Ma per chi lavorate adesso, Zelinda?”. “Per dire la verità, non avrei bisogno, essendo sola. Ma mi sembra che la terra e i fiori mi chiedano la carità e io non sono buona di dire loro di no. Intanto si semina e poi, se si sarà vivi, si raccoglierà e altrimenti pazienza. Noi dobbiamo fare la nostra parte”.
Lei ha seminato e il Signore l'ha premiata. Ha fatto fiorire tanto la famiglia che l’orto, anche quando lei non poteva più, come farà con noi quando non ci saremo. Se avremo avuto il cervello e la fortuna di seminare.
Il vangelo (Lc 21,1-4) narra di quella povera vedova che, tutta riguardosa, si è trascinata lungo i muri nel tempio fino alla cassetta delle offerte, dove i ricchi potevano sfogarsi, per offrire anche lei le sue due palanche. E il Signore ha detto che lei ha offerto più di tutti, perché ha offerto tutto.
Anche Zelinda, piegata e minuta, ha donato nel mondo le sue due palanche, e dunque ha dato tutto. Perciò io la vedo come quelle persone che Dio ci manda per consolarci con la bontà, dopo averci provati con la cattiveria. I santi sono come le legna nello “spolert”. Non si vedono, ma si sente il tepore. E quando si spengono, si sente il freddo. Per questo Dio non può castigare il mondo lasciandolo senza santità.
Adesso che l'abbiamo messa a riposare come semenza di eternità per il grande orto del cielo, abbiamo tutto il diritto di pretendere che il Signore ci mandi altri piccoli fiori nel nostro piccolo paese per illuminare la nostra piccola storia.

mercoledì 5 dicembre 2012

49 Zaccheo e l’albero

49 Zaccheo e l’albero
La figura simpatica, anche se un po' carogna, di Zaccheo, “soreposto che dai pubblicani e ricco”, mi accompagna da una vita. Avevo ancora il moccio al naso che il prete Simeone ci raccontava di questo uomo, basso di statura ma grande di furbizia, che, dopo avere imbrogliato tutti, è riuscito a imbrogliare anche il Signore assicurandosi la salvezza. Mi sono imbattuto più volte leggendo e rileggendo il pezzo quando traducevo la parola di Dio nel calore della lingua di nostra madre.
Addirittura ho avuta la fortuna di visitare anche il suo paese, Gerico, dove mostrano tuttora il sicomoro su cui si era arrampicato per vedere il Signore perché era troppo piccolo. Eppure mi ero fermato al particolare tragicomico della statura, senza dare al fatto il valore di simbolo e di parabola.
Ho capito qualcosa solo l'altro giorno, il 3 di giugno, quando mi sono trovato con don Tonino e i miei paesani a ricordare i dieci anni della ricostruzione della chiesa di sant'Antonio abate, a Venzone, una perla incastonata nella collana delle mie montagne, a 850 m. di altezza.
Mentre cantavo il vangelo di Luca (19,1-10), ho avuta come una folgorazione. Zaccheo non poteva vedere il Signore non perché era basso, ma perché che era uomo. Nessun uomo, di nessun tempo, non è sufficientemente alto per vedere il Signore. Non si tratta dunque di una piccolezza fisica ma ontologica, esistenziale. Anche se fosse stato alto come San Cristoforo, non avrebbe potuto lo stesso vedere con i suoi occhi mortali nè Dio nè il figlio di Dio. Lo aveva detto per altri Dio a Mosè nella rivelazione del Sinai: “L’uomo non può guardare me e restare in vita” (Es 33,20).
Però nessuno può condannare la creatura se, per vedere il Signore, per chiarire il mistero della vita, per cercare la ragione ultima dell'esistenza e la giustificazione del suo combattere e tribolare, si arrampica su per un albero, Magari sul primo che trova. Può essere l’albero della scienza o della filosofia o della psicologia o della tecnologia o della medicina o del potere o del materialismo o un qualunque albero che ti dia almeno l'impressione di esserti distaccato dai garbugli e di essere più forte e più vicino alla soluzione.
Peccato che l’albero, simbolo della razionalità e delle potenzialità umane, può andare bene solo per vedere meglio le cose di questo mondo, nella loro complessità e nella loro globalità. Se si sale sull' albero per svelare il mistero si è scelta la strada sbagliata. Nessun albero, nessuna scala, nessuna montagna, nessuna altezza è sufficientemente alta per riuscire a sbirciare attraverso la porta del Signore.
Allora Dio ha pietà di noi e ci invita a fare il percorso inverso, a scendere giù velocemente da un'altezza inadeguata, a farci piccoli e ad aprire la porta ospitandolo in casa nostra.
Per vedere il Signore, l’uomo non deve alzarsi ma abbassarsi, rinunciando a ogni forme di furbizia e di cattiveria liberando il cuore di tutto ciò che lo tiene ingombrato.
Quando l’anima, mediante la grazia e il pentimento, si sarà disfatto di ogni cosa acquistata malamente e si sarà liberata di tutto ciò che ha rapinato e dissipato a livello religioso, culturale, morale, ambientale e umano, ritornerà ad acquistare l'armonia con Dio, con i fratelli e col mondo. ritornerà bambina. Non infantile o stupida, ma libera e semplice. Allora lui si siederà alla nostra tavola e la casetta dal nostro cuore diventerà chiesa, la prima chiesa, che dà valore e legittimazione a ogni chiesa di sasso, da quella del borgo fino alla cattedrale e all'immensa basilica carica di storia e di arte.