lunedì 24 febbraio 2014

08 Il tempo del deserto

08 Il tempo del deserto
Nella storia tormentata del popolo ebraico c'è un tempo importante e paradigmatico. è il tempo del deserto, il tempo che separa l'Egitto e la terra di Canaan, una parte di schiavi e un popolo cosciente e libero. Non è solo una distanza geografica o temporale, ma qualcosa di più profondo, sostanziale, rivoluzionario. Come passare della morte alla vita, dal non essere all' essere.
Storicamente, per i figli di Israele questo tempo è lungo quarant'anni, numero chiaramente simbolico che in ogni caso ci fa immaginare una durata non indifferente. Per altri popoli può durare di meno; per altri ancora può durare per tanto che dura la loro storia. Ma ognuno deve passare per questa esperienza.
La Bibbia ne parla nel libro dell' Esodo e dei Numeri, ma tutto il Pentateuco, e dunque il cuore della Torah, è legato a questo tempo e a questa esperienza.
Il tempo del deserto è stato visto in maniere diverse e complementari e tutte vere, dal momento che ogni realtà ha più facce e valenze. Qualcuno lo ha visto come un tempo ideale perché l'anima, povera e dunque libera, si butta con più passione e brama nelle mani di quello che è l'unica salvezza. "tornerò a portarla nel deserto e parlerò al suo cuore" dice Osee (2, 16). C'è il tempo che il popolo grida con più fede al Dio dei suoi padri, ma anche quello della ribellione e della idolatria. C'è il tempo della protezione evidente di Dio, con le quaglie, l'acqua dalla roccia e la manna, ma anche del dubbio più orrendo: "Il Signore è della nostra parte o no?" (Es 17, 7). Il tempo della preghiera e della provocazione, della ubbidienza e della ostinazione, della alleanza e della prevaricazione. C'è il tempo che il popolo guarda avanti e sospira a una terra tutta sua, da vivere in pace e in libertà, e il tempo della regressione e della nostalgia per una schiavitù che almeno ti assicurava un pezzo di pane una razione di carne, anche se pagata a prezzo di sangue.
Il tempo del deserto è il tempo in cui Dio consegna a Mosè la Torah (insegnamento, legge) sulla montagna del Sinai. I rabbini si sono arrovellati nell'interrogarsi sul perché la legge gli viene consegnata nel deserto e non quando sono sistemati nella loro terra. Una dalle risposte è questa: Dio ha destinato di dare la Torah in una terra di nessuno per dire che la legge non è di un popolo o di una terra particolare, ma di tutti quelli che vogliono accettarla e dunque è una legge e una strada universale. Viene data nel deserto, luogo di morte, perché la legge ha la virtù di trasformare il deserto morale e sociale dell' uomo e della collettività in un luogo che non è più selvaggio o morte, ma vivibile.
Ma il deserto insegna a tutti, ebrei e stranieri, che non esistono sentieri o scorciatoie o bacchette magiche per passare della schiavitù alla libertà, della situazione di servi a quella di padroni e di protagonisti. Non esiste una generazione liberata se la generazione che l' ha preceduta non è morta nel deserto. La liberazione appartiene a tutte le generazioni, ma quella che l'inizia non è detto che la termini e quella che la termina non è detto che l'abbia anche iniziata. Forse per il fatto che non esiste una liberazione definitiva e che l'uomo è condannato a vivere nella situazione di liberazione e non di libertà, di deserto e non di padronanza della terra, più di ciò che non crede e non vorrebbe. con tutte le paure, i ripensamenti, le nostalgie possibili e inimmaginabili. Nella concezione cristiana, il tempo del deserto è lungo come tutta la nostra storia, perché la terra della nostra libertà definitiva è l'al di là.

sabato 15 febbraio 2014

07 A proposito di polli

07 A proposito di polli
Di quel poco o niente di sloveno che si studiava, con poca voglia e nessuna serietà in seminario, mi resta un proverbio: "Dohvnikov trebuh è britov petelinov", "la pancia dei preti è il cimitero dei polli". Mi ricordo anche di avere acquistato ad Assisi, con grande confusione di quello che me lo vendeva, un quadretto di ceramica con scritto: "Preti e polli non sono mai satolli". Rientrando nella categoria, avrei dovuto avere un rapporto continuativo e alternativo con la carne bianca, ma la realtà è stata differente. Da bambino gli unici polli che mi ricordo sono quelli nelle mani, negli inverni freddi di quegli anni. Poi mi sono adattato come tutti, anche se non faccio una malattia per la carne di piuma.
Parlo di polli perché anche io faccio parte, nel bene e nel male, di quella umanità matta che si sta comportando in maniera sempre più stupida e irrazionale da quando il condizionatore massmediatico ci ha spaventati con "l'aviaria" o "moria di polli", dopo averci terrorizzati con la bistecca delle vacche andate fuori di testa. Non vorrei che gli allevatori di bovini avessero reso la farina agli allevatori di polli che li avevano mandati in malora qualche anno addietro. La storia dei polli sta mettendo in ginocchio una fascia importante della nostra produzione, con tanta gente senza lavoro e migliaia di tonnellate che restano invendute, a patto che non le spediscano, come sempre, nel terzo mondo, dove non hanno tempo di guardare la televisione perché non ce l'hanno e sentono più la fame che i comunicati. Tutto questo per una paura immotivata, come si dannano a spiegarci ogni sera, dicendo che la carne, cotta, è sicura e anche le uova sono a posto. Non saranno come quelli delle galline di mia nonna, che andava ognì giorno col dito a provare se l'uovo era in punta e poi ce lo presentava tutto smerdato sulla tavola, ma non sono male.
La paura, in questo caso la superstizione, ha fatto crollare il consumo di carne del 70% e, se tu gli presenti una coscia di pollo, ti saltano sulla sedia come se avessero trovato una bomba. Gran parte di quelli che non vogliono saperne dei polli, mangiano qualunque porcheria, e schifezza e affrontano rischi ben più grandi: correre come forsennati con auto e moto, bere, fumare o appartarsi dietro siepi con clienti che sgattaiolano per le strade della città. Li non ci sono paure che tengono, per dire quanto siamo mal messi, non con i polli, ma con la testa.
Tornando alle povere bestie sotto processo, mi verrebbe da dire che la cosa va ribaltata. Non siamo noi che dobbiamo guardarci dai polli, ma sono i polli ch devono guardarsi dall' uomo. E' una vergogna vedere questi allevamenti dove sono stivati migliaia e migliaia di bestioline, senza nessuna o con minime possibilità di movimento, obbligate a mangiare giorno e notte perché devono ingrassarsi entro tanto tempo altrimenti il padrone ci rimette. E per risparmiare e guadagnare, si è sentito di gente senza coscienza che fa ingoiare anche olio di auto e roba marcia o cancerogena. Ho letto che, da qualche parte, gli inchiodano le zampe con le puntine per obbligarli a stare fermi e, per avere il fegato ingrassato, per cui i francesi diventano matti, ubriacavano le oche di vino e di aceto da fare scoppiare il fegato. E dopo le torture, quando si ammalano, non hanno neanche l'umanità di ucciderli per non farli soffrire ma, come si è visto troppo volte, li sotterrano vivi. Che vergogna, che scandalo, che barbarie!
Ho parlato di superstizione. Che non significa credere troppo, ma credere stupidamente. E più stupida è la cosa e più si crede. E più credono tutti e più si va dietro come pecore. Anzi come oche. Le oche più oche e più pericolose sono di sicuro quelli fuori dalla gabbia.

sabato 8 febbraio 2014

06 La barba di Maometto

06 La barba di Maometto
Davanti all'indignazione esasperata e incontrollata di parte del mondo islamico per le dodici vignette satiriche contro Maometto pubblicate su di un giornale danese, ti viene da dire, come gli avi, “male a Paluzza e peggio a Tamai”. perché, veramente, non si sa dove è il peggio e non si riesce a trovare la ragione. perché andare a offendere la sensibilità di milioni e milioni di persone che si sa quanto ci tengono ai loro simboli e ai loro valori? Se per gran parte del mondo occidentale il mondo religioso non dice niente o addirittura dà fastidio, una superbia culturale o psicologica patetica, ci sono persone che fanno della religione e dei libri santi il punto di riferimento fondamentale o assoluto. Perché andare a provocarli stupidamente?
I paesi del nostro continente, soprattutto quelli a occidente come la Danimarca, Svezia e via avanti, hanno una sola religione, fede e divinità: la libertà. Si è liberi di convivere o di lasciarsi, di dire ciò che si ha voglia, di tappezzare i muri di qualunque stupidaggine o porcheria,, di appendersi la collo corna e o simboli zodiacali di ogni fatta e misura. L’unica cosa proibita, derisa, guardata di traverso è la religione. E' serietà, onestà, intelligenza? Bisogna che il nostro mondo emancipato e disinibito impari un po' di creanza, di rispetto, di umiltà e di autentica libertà.
Ma se noi occidentali adoperiamo male la libertà, anche il mondo musulmano, o buona parte, sta adoperando molto male la sua religione, mettendo in luce il suo aspetto più integralista e intollerante, che è proprio il contrario della religione. Tutta questa esplosione di rabbia e di violenza, che ha fatto le sue vittime nel mondo cristiano, con la morte in Turchia dal prete Andrea Santoro, e ancora più nel musulmano, è troppo compatta e uguale, troppo generalizzata e sincronizzata per crederla genuina. Qui la religione è solo una scusa in mano a gente che vive di terrorismo e a governi, come Arabia Saudita, Siria e Iran, che hanno tutto l'interesse ad aizzare la loro gente contro l' occidente corruttore perché non guardi ciò che succede nell' oriente oppressore. Come mai la rabbia è saltata fuori tre mesi dopo la pubblicazione delle caricature ed è stata più forte dove più deboli sono i diritti civili? Si sa che in quei paesi la censura regna sovrana, controllando tutto e tutti. Chi ha deciso di far vedere ai musulmani le vignette sacrileghe (se mai le hanno viste!) e chi ha dato loro il permesso di radunarsi a migliaia, urlando e bruciando bandiere, magari scambiando quella svizzera per quella danese, e ambasciate? Come mai fino alla preghiera del Venerdì nessuno sapeva o protestava e, subito dopo la predica degli ulema, degli imam e degli scheiks, l’oriente ha preso fuoco?
E' un caso che deve farci riflettere a ogni livello. perché si ripeterà sempre più spesso e certe gente troverà sempre un pretesto per sottolineare la superiorità di una cultura e di un mondo rispetto all' altro. E questa divisione sempre più netta e pericolosa capita proprio in pieno processo di globalizzazione. Non abbiamo mai avuto un mondo così unito e interdipendente e non abbiamo mai avuta tanta distanza culturale e politica. La lezione, l’unica, che dobbiamo ricavare è quella del rispettare e farsi rispettare, non offrendo il fianco ai più esasperati ma anche pretendendo la parità di rispetto. Se non è tollerabile deridere i musulmani, non è tollerabile che loro deridano gli ebrei o i cristiani. Perché la barba di Maometto, per tanto santo e venerabile, non vale più della barba di Aronne o di Gesù Cristo. E neanche più di qualunque barba o volto o persona, che viene umiliata o uccisa con l’illusione di onorare la divinità. Difficile, e doloroso, dover scegliere fra il nostro niente e il loro troppo!


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sabato 1 febbraio 2014

05 Il flop del clic

05 Il flop del clic
“Se ritornassero i nostri vecchi!” Si sente dire in tante occasioni, più con la paura che fuggano come il fumo per ritornare nella loro pace silenziosa che con la speranza che restino affascinati dinnanzi al nostro mondo, ammesso che sia nostro il mondo. Siamo chiamati o condannati a vivere in tempi inediti e straordinari, che richiedono tutta la nostra intelligenza e libertà interiore per non essere presi in questa rete virtuale e fatale che riesce a catturare anche le realtà più piccole e appartate. Il tutto nel giro di una o due generazioni, a nostra memoria e testimonianza.
Appena finita la guerra, la seconde, e dunque ai tempi della mia infanzia, si andava ancora al santuario di Castelmonte col carro o con un camion militare; da Venzone a Gemona si andava regolarmente a piedi; il confine del nostro mondo era la montagna o la campagna; ci si chiamava urlando da una casa all'altra e da una montagna all'altra; ci si lavava nella tinozza quando si doveva andare dal medico; si sciacquava nella roggia; le novità arrivavano sempre vecchie e le portavano quelli che ritornavano dall'estero; la comunicazione era immediata, misurata, essenziale ma reale. forse si era un po' selvaggi, fuori dal grande traffico, chiusi ma sicuri, come gli uccelli nel nido o il grillo nella tana. Poi è arrivata la rivoluzione economica, industriale, culturale, religiosa, mediatica. siamo saltati fuori o caduti dal nido, abbiamo abbandonata la tana e ci si siamo trovati, di colpo, cittadini del mondo, proiettati in un progresso tecnologico esponenziale, passando come in un film e con la velocità di una giostra, dal neolitico al cibernetico. E tutti, anche le nonne, ci siamo trovati a fare i conti con i tasti, con i telecomandi e con ogni sorta di stregoneria Parafrasando Archimede, basta trovare il clic giusto per spalancare tutte le porte dal mondo.
La realtà è sotto gli occhi di tutti e non serve sprecare parole per raccontarla. Si va sulla luna e si gira il mondo intero senza nessun fastidio; cliccando il televisore si sa in tempo reale tutto su tutti, ammesso che sia proprio così; ci si sposta con l'auto per andare a fare la spesa o si può ordinarla rimanendo in casa cliccando col mouse; anche i più pidocchiosi hanno un televisore per stanza e il più stupido del paese, che non è capace di imbastire un discorso o di scrivere una lettera, schiaccia come un dannato i tasti del suo telefonino per mandare SMS senza sapore a gente che li riceve senza interesse. Possiamo fare il giro del mondo non in ottanta giorni, come Phileas Fogg, ma in un minuto e aprire tutti le finestre virtuali per curiosare in qualunque sito. Possiamo spostarci con i mezzi più veloci o anche rimanendo seduti davanti ad una tastiera. Tutto con un semplice, banale clic.
Giunti però alla fine di questa nostra corsa o navigazione megagalattica e pigiando il tasto fino a che ci fa male il dito, ci accorgiamo con sorpresa e con spavento che la cosa non è così esaltante, sicura, appagante come si credeva. Ci spostiamo, corriamo, cerchiamo, vediamo, sappiamo, sentiamo, pigiamo ma, invece di crescere, la nostra comunicazione, comunione, collegamento, cala. Al punto che il navigatore più zelante, per stare dietro a tutte le curiosità e sollecitazioni, deve chiudersi giorno e notte in una stanza, al buio, peggio dei carcerati. E mentre una volta, andando a piedi da Amaro a Tolmezzo, si chiacchierava andando e tornando con tutti quelli che si incontravano, oggi si fa il giro del mondo e si torna senza scambiare parola col vicino.
Il flop del clic deve farci capire che il virtuale può essere un buon integratore del reale per il fatto che lo completa ma è un orrendo sostituto. Mille orchidee di plastica non fanno e non valgono la viola più minuta.