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Il tempo del deserto
Nella
storia tormentata del popolo ebraico c'è un tempo importante e
paradigmatico. è il tempo del deserto, il tempo che separa l'Egitto
e la terra di Canaan, una parte di schiavi e un popolo cosciente e
libero. Non è solo una distanza geografica o temporale, ma qualcosa
di più profondo, sostanziale, rivoluzionario. Come passare della
morte alla vita, dal non essere all' essere.
Storicamente,
per i figli di Israele questo tempo è lungo quarant'anni, numero
chiaramente simbolico che in ogni caso ci fa immaginare una durata
non indifferente. Per altri popoli può durare di meno; per altri
ancora può durare per tanto che dura la loro storia. Ma ognuno deve
passare per questa esperienza.
La
Bibbia ne parla nel libro dell' Esodo e dei Numeri, ma tutto il
Pentateuco, e dunque il cuore della Torah, è legato a questo tempo e
a questa esperienza.
Il
tempo del deserto è stato visto in maniere diverse e complementari e
tutte vere, dal momento che ogni realtà ha più facce e valenze.
Qualcuno lo ha visto come un tempo ideale perché l'anima, povera e
dunque libera, si butta con più passione e brama nelle mani di
quello che è l'unica salvezza. "tornerò a portarla nel deserto
e parlerò al suo cuore" dice Osee (2, 16). C'è il tempo che il
popolo grida con più fede al Dio dei suoi padri, ma anche quello
della ribellione e della idolatria. C'è il tempo della protezione
evidente di Dio, con le quaglie, l'acqua dalla roccia e la manna, ma
anche del dubbio più orrendo: "Il Signore è della nostra parte
o no?" (Es 17, 7). Il tempo della preghiera e della
provocazione, della ubbidienza e della ostinazione, della alleanza e
della prevaricazione. C'è il tempo che il popolo guarda avanti e
sospira a una terra tutta sua, da vivere in pace e in libertà, e il
tempo della regressione e della nostalgia per una schiavitù che
almeno ti assicurava un pezzo di pane una razione di carne, anche se
pagata a prezzo di sangue.
Il
tempo del deserto è il tempo in cui Dio consegna a Mosè la Torah
(insegnamento, legge) sulla montagna del Sinai. I rabbini si sono
arrovellati nell'interrogarsi sul perché la legge gli viene
consegnata nel deserto e non quando sono sistemati nella loro terra.
Una dalle risposte è questa: Dio ha destinato di dare la Torah in
una terra di nessuno per dire che la legge non è di un popolo o di
una terra particolare, ma di tutti quelli che vogliono accettarla e
dunque è una legge e una strada universale. Viene data nel deserto,
luogo di morte, perché la legge ha la virtù di trasformare il
deserto morale e sociale dell' uomo e della collettività in un luogo
che non è più selvaggio o morte, ma vivibile.
Ma
il deserto insegna a tutti, ebrei e stranieri, che non esistono
sentieri o scorciatoie o bacchette magiche per passare della
schiavitù alla libertà, della situazione di servi a quella di
padroni e di protagonisti. Non esiste una generazione liberata se la
generazione che l' ha preceduta non è morta nel deserto. La
liberazione appartiene a tutte le generazioni, ma quella che l'inizia
non è detto che la termini e quella che la termina non è detto che
l'abbia anche iniziata. Forse per il fatto che non esiste una
liberazione definitiva e che l'uomo è condannato a vivere nella
situazione di liberazione e non di libertà, di deserto e non di
padronanza della terra, più di ciò che non crede e non vorrebbe.
con tutte le paure, i ripensamenti, le nostalgie possibili e
inimmaginabili. Nella concezione cristiana, il tempo del deserto è
lungo come tutta la nostra storia, perché la terra della nostra
libertà definitiva è l'al di là.