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Il flop del clic
“Se
ritornassero i nostri vecchi!” Si sente dire in tante occasioni,
più con la paura che fuggano come il fumo per ritornare nella loro
pace silenziosa che con la speranza che restino affascinati dinnanzi
al nostro mondo, ammesso che sia nostro il mondo. Siamo chiamati o
condannati a vivere in tempi inediti e straordinari, che richiedono
tutta la nostra intelligenza e libertà interiore per non essere
presi in questa rete virtuale e fatale che riesce a catturare anche
le realtà più piccole e appartate. Il tutto nel giro di una o due
generazioni, a nostra memoria e testimonianza.
Appena
finita la guerra, la seconde, e dunque ai tempi della mia infanzia,
si andava ancora al santuario di Castelmonte col carro o con un
camion militare; da Venzone a Gemona si andava regolarmente a piedi;
il confine del nostro mondo era la montagna o la campagna; ci si
chiamava urlando da una casa all'altra e da una montagna all'altra;
ci si lavava nella tinozza quando si doveva andare dal medico; si
sciacquava nella roggia; le novità arrivavano sempre vecchie e le
portavano quelli che ritornavano dall'estero; la comunicazione era
immediata, misurata, essenziale ma reale. forse si era un po'
selvaggi, fuori dal grande traffico, chiusi ma sicuri, come gli
uccelli nel nido o il grillo nella tana. Poi è arrivata la
rivoluzione economica, industriale, culturale, religiosa, mediatica.
siamo saltati fuori o caduti dal nido, abbiamo abbandonata la tana e
ci si siamo trovati, di colpo, cittadini del mondo, proiettati in un
progresso tecnologico esponenziale, passando come in un film e con la
velocità di una giostra, dal neolitico al cibernetico. E tutti,
anche le nonne, ci siamo trovati a fare i conti con i tasti, con i
telecomandi e con ogni sorta di stregoneria Parafrasando Archimede,
basta trovare il clic giusto per spalancare tutte le porte dal mondo.
La
realtà è sotto gli occhi di tutti e non serve sprecare parole per
raccontarla. Si va sulla luna e si gira il mondo intero senza nessun
fastidio; cliccando il televisore si sa in tempo reale tutto su
tutti, ammesso che sia proprio così; ci si sposta con l'auto per
andare a fare la spesa o si può ordinarla rimanendo in casa
cliccando col mouse; anche i più pidocchiosi hanno un televisore per
stanza e il più stupido del paese, che non è capace di imbastire un
discorso o di scrivere una lettera, schiaccia come un dannato i tasti
del suo telefonino per mandare SMS senza sapore a gente che li riceve
senza interesse. Possiamo fare il giro del mondo non in ottanta
giorni, come Phileas Fogg, ma in un minuto e aprire tutti le finestre
virtuali per curiosare in qualunque sito. Possiamo spostarci con i
mezzi più veloci o anche rimanendo seduti davanti ad una tastiera.
Tutto con un semplice, banale clic.
Giunti
però alla fine di questa nostra corsa o navigazione megagalattica e
pigiando il tasto fino a che ci fa male il dito, ci accorgiamo con
sorpresa e con spavento che la cosa non è così esaltante, sicura,
appagante come si credeva. Ci spostiamo, corriamo, cerchiamo,
vediamo, sappiamo, sentiamo, pigiamo ma, invece di crescere, la
nostra comunicazione, comunione, collegamento, cala. Al punto che il
navigatore più zelante, per stare dietro a tutte le curiosità e
sollecitazioni, deve chiudersi giorno e notte in una stanza, al buio,
peggio dei carcerati. E mentre una volta, andando a piedi da Amaro a
Tolmezzo, si chiacchierava andando e tornando con tutti quelli che si
incontravano, oggi si fa il giro del mondo e si torna senza scambiare
parola col vicino.
Il
flop del clic deve farci capire che il virtuale può essere un buon
integratore del reale per il fatto che lo completa ma è un orrendo
sostituto. Mille orchidee di plastica non fanno e non valgono la
viola più minuta.
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