lunedì 28 aprile 2014

17 Come un agnello al macello

17 Come un agnello al macello
Una vecchia preghiera popolare della settimana santa recita: "figlio mio dilettissimo, madre mia dilettissima, che giornata sarà per voi Mercoledì Santo? Sarete come un agnello in macello". E non si poteva trovare paragone più indovinato e doloroso, più dolce e sconvolgente di questa bestiolina trascinata sul fior fiore della stagione astronomica e soprattutto della sua vita corta per essere uccisa, vittima innocente e incosciente, icona tragica e patetica di tutte le vittime della umana insensibilità e insanità. Peraltro il paragone coll' agnello di Pasqua è un dei pilastri portanti della tradizione biblica e della cultura ebraica e la Chiesa, da sempre, e ha sostituito o sovrapposto al musetto dell'animale il volto trasfigurato di Cristo, "il vero agnello che ha tolto il peccato dal mondo" (prefazione I di Pasqua).
Su questa raffigurazione e identificazione si sfoga la fantasia e la pietà di un padre della hiesa orientale, il vescovo Meliton di Sardi,nella sua Omelia di Pasqua (verso il 160-170), che gioca in un continuo fra la liberazione dei figli di Israele a opera di Mosè e dei fedeli a opera di Cristo e fra l'agnello e l'agnello. Cristo viene trascinato via come un agnello e ucciso come una pecora, per liberarci dalla schiavitù del diavolo come forse dalla mano del faraone. E' lui che ci tira fuori dalla schiavitù per la libertà, dal buio per la luce, dalla morte per la vita, lui la Pasqua della nostra salvezza. è lui che ha patito tanto in tanti di loro: è stato ucciso in Abele, è stato legato per i piedi e trascinato sull' altare in Isacco, ha conosciuta la profuganza in Giacobbe, è stato venduto in Giuseppe, è stato esposto lungo il fiume in Mosè, è stato accoltellato nell'agnello, è stato perseguitato in Davide e disonorato nei profeti. è lui che si è incarnato nella Vergine, appeso sul legno della croce, sepolto in terra e, risorto dai morti, è asceso nella gloria dai cieli. E' lui l'agnello senza voce, l'agnello ucciso, nato da Maria, la bella agnella, Catturato dal gruppo e trascinato al macello, sacrificato sul tramontare del sole e seppellito durante la notte. Sul legno della croce non è stato spezzato e sotto terra non è andato putrefatto, ma è risorto dai morti e ha resuscitato l'uomo dal sepolcro più profondo che si trovava.
Se il ragionamento e l'applicazione di Meliton sono fondati, si può dire che Cristo è stato deportato, venduto, torturato, violentato, umiliato, sfigurato nelle tragedie infinite della storia umana, dalla tratta dei neri ai gulag di Stalin, dai lager di Hitler ai campi di tortura di Mao, di Pol Pot e dai Balcani, dai maelli del Ruanda alle torture del medio oriente, Ma anche dal tribunale del malato degli ospedali, dai bambini abbandonati, nei vecchi soli, nei matti e nei detenuti. Se Cristo ha preso su di sé non solo il peccato del mondo ma anche il dolore, non c'è lacrima che non bagni il suo volto, non c'è ferita che non segni il suo corpo, non c'è peso fisico o morale che non pieghi la sua schiena fino a terra. E' questo pensiero che mi dà forza e serenità quando oltrepasso la porta dell'ospedale e mi distendo sul letto. E' lui che ci accompagna e si stende accanto a noi. Se Cristo spartisce il dolore del mondo, tutto il dolore del mondo e ogni dolore partecipa della missione redentiva di Cristo, una messa lunga come la storia e larga come il mondo. Di un valore uguale a quello di Cristo, ovvero infinito. E dunque il mistero insondabile e scandaloso del dolore, che è la sfida più grande all'esistenza e alla provvidenza di Dio, diventa la strada più dritta e sicura alla redenzione e alla salvezza. Un seminare nel tempo per raccogliere per l'eternità. Ma anche in questo mondo, se è vero che il regno di Dio è già iniziato.

domenica 20 aprile 2014

16 A scuola da Tommaso

16 A scuola da Tommaso
Forse i cristiani non si ricordano di tutti i particolari della resurrezione del Signore, ma anche i più digiuni e neutrali sanno che uno dei discepoli ha detto che, se non vedeva il segno dei chiodi e non metteva la sua mano nel costato del Signore, non credeva. Di fatto il nome di Tommaso, insieme con quel di Giuda, tutti lo conoscono, e la maggioranza restano edificati della sua prudenza, invece di restare mortificati dalla sua diffidenza. E così è nato il proverbio: "io sono come San Tommaso: se non vedo, non credo". Il vangelo riporta anche il soprannome di questo discepolo: "Dìdimos", che si può tradurre come "gemello" o anche come "doppio", nel senso di falso e instabile. In tutti e due i sensi può benissimo essere considerato "gemello" di ognuno di noi, così prudenti dove si dovrebbe credere e così avventati dove sarebbe bene essere più prudenti.
Mi sono domandato più volte, soprattutto davanti a tante manifestazioni di credulità immotivata e di incredulità preconcetta, se dobbiamo prendere l'esempio dal primo Tommaso nel chiedere la prova o se invece è più cristiano ripetere col secondo Tommaso: "Signore mio e Dio mio" (Gn 20,29). E' il rapporto dialettico e conflittuale fra le esigenze sacrosante della ragione e quelle non meno sante della fede. La ragione domanda prove e non può chiudere gli occhi, ma la fede non può fondarsi sulle prove, anche se per principio non deve fondarsi sull'assurdità.
D'altra canto tanto la ragione che la fede provengono da Dio, che si onora sia aprendo gli occhi e cercando le cause che chiudendo gli occhi e accettando il mistero. Direi che servono entrambi gli atteggiamenti. Basta adoperarli nel posto giusto. perciò nelle cose umane non si deve chiudere gli occhi ma si deve cercare il più a fondo possibile per avere il massimo di obbiettività e di chiarezza. In comune, in parlamento, in tribunale, nelle banche, nella vita sociale non devono esserci misteri e non si deve pretendere un atto di fede e tanto meno di adorazione. Si deve vedere, prima di credere. E vedere anche dove non si vorrebbe o non vorremmo. Vedere e tastare.
Invece nelle questioni di fede, dove la ragione non può provare e una prova materiale non direbbe proprio niente, si deve avere l'intelligenza di chiudere gli occhi e adorare. perché il reale è più vasto del razionale e la ragione non riesce a vedere tutto e tanto meno a spiegare tutto.
Direi che la fede è un dono da adoperare anche nelle robe di questo mondo, per vederle nella loro completezza e soprattutto per andare più in là o in alto del semplice dato razionale, che può essere insignificante, freddo e angosciante. Con gli occhi del corpo vedo una persona, un fatto, un caso, un puntino. Con gli occhi della fede, questa persona prende il volto di Cristo, questo fatto entra in una storia più grande, questo puntino trova il suo posto nel disegno di Dio, dove anche il nero e il negativo e l'inspiegabile o l'inevitabile trovano una loro giustificazione e positività. Solo con gli occhi della fede posso vedere la mano e l'opera di Dio e solo vedendo la mano e l'opera di Dio posso vedere nella dimensione più vera e globale.
Ma ci sono però momenti dove non si riesce a vedere proprio niente, perché la notte è troppo fonda e le tenebre troppo disperanti. E' soprattutto in quel momento che l'occhio della fede riesce a guardare nel buio, come i gatti, e a trovare l'orma e la strada di Dio anche nel garbuglio più annodato. E in quella volta solo uno che crede vedrà. Abbiamo peraltro la conferma della storia: solo quelli che hanno creduto in qualcosa di grande, sono riusciti a vederlo.

sabato 12 aprile 2014

15 Un frate poco fedele

15 Un frate poco fedele
Anche quest'anno si celebra la giornata delle anime consacrate. Temo però che tanta gente non si perderà a contemplare ammirata tanta santità, generosità e fedeltà, impegnata come è a sentire le ultime, poco edificanti (dis)avventure di p. Fedele Bisceglia, il frate di Potenza messo in prigione con una denuncia pesante e circostanziata di una suora.
I giornali e la televisione buttano fuori ogni giorno, come un rubinetto che spande, pezzi dalle telefonate indecenti che p. Fedele faceva a ogni ora dal giorno e della notte, a ogni genere di donne e adoperando ogni genere di vocaboli. Non potendo negare le intercettazioni, l'ha messa in burla e, in una sua memoria, ha scritto di essere perseguitato come Gesù Cristo e di meritare di essere fatto santo. Per dire il fegato del personaggio.
Che p. Fedele, dei Minori di S. Francesco di Paola, abbia fegato da vendere, lo dimostra tutta la sua carriera. Laureato in filosofia, teologia e medicina, è riuscito a creare un impero miliardario, fatto di chiese, scuole, strutture sanitarie, dove si mettono assieme persone di ogni fatta e più sono strambi e più sono adatti. La “perla” di p. Fedele è una pornostar convertita ed esibita come preda di Gesù Cristo in un disordine di trasmissioni televisive, dove il frate mostrava tutta la sua scaltrezza, arroganza e mancanza di misura. Di fatto la gente più seria rideva. Questa conversione spettacolare avrebbe dovuto diventare vocazione alla clausura in un convento dell' Aspromonte. Le cronache dicono che conduce vita notturna sui palchi di mezza Italia, con lo stesso mestiere di prima e con la pubblicità del frate.
Fra una corsa in Africa e una trasmissione, p. Fedele riesce anche a seguire la squadra di calcio del Potenza, come vicepresidente e come capo degli ultras. Un giocatore è scappato gridando che era inseguito da un matto vestito da frate. In realtà era proprio il frate che faceva il matto.
Non è il caso di proseguire con questa tragicommedia. Come per tutti, si vuole sperare che la giustizia si sbrighi a fare chiarezza e a dare serenità o alla suora o al frate, ma soprattutto alla gente della città e a tanti cristiani disorientati e nauseati. Ma dobbiamo chiederci come è che la cosa è giunta a quegli eccessi, perché nessun non ha avuto il cuore e l’onestà di fermarlo, di aiutarlo a stare nel suo posto, a onorare la sua tonaca e la sua regola. Noi preti ci chiamiamo “secolari” perché viviamo nel “secolo” o mondo, e abbiamo un vescovo che ci tiene d'occhio nel ben e nel male. I frati si chiamano “regolari” perché hanno la regola che impone loro, più dei preti, una vita riservata, spirituale, comunitaria. Possibile che nessun superiore gli abbia mai domandato da dove arrivava tutta quella pioggia di soldi, che non gli sia venuto lo scrupolo che il posto del frate non era negli studi televisivi o nelle curve degli esaltati, che non poteva un uomo normale correre in giro giorno e notte, in Italia e per il globo, senza compromettere la dimensione spirituale dalle sue giornate? Adesso è troppo tardi mettersi a gridare al tradimento e allo scandalo, dopo anni e anni di quella vita scatenata. O gli andava bene tutto quel giro di soldi e di gente e tutta quella popolarità?
Si sa che le regole religiose sono state scritte in un tempo passato e lontano e che bisogna armonizzarle alla vita di oggi. Si cambia ciò che è bene e giusto cambiare, ciò che non tocca la sostanza della vita consacrata. Ma lo spirito deve restare identico. Sembra invece che si tenga duro sulle cose esteriori, come la tonaca, il cordino eccetera, e si molli su tutto il resto, ben più importante. Confondere poi la modernità con la stupidità e la trasgressione è un cosa troppo orrenda per crederla.

sabato 5 aprile 2014

14 Contare i giorni

14 Contare i giorni
Questa volta mi tocca prendere in mano il libro santo per ragioni anagrafiche. Si colma un altro giro della mia esistenza avventurosa e venturata. L' 11 di febbraio, mentre a Roma brindano a ricordo del pasticcio concordato fra il papa e il duce e a Lourdes pregano a ricordo della apparizione della Madonna a Bernadette, compio 65 carnevali. E il libro mi ricorda di non cantare troppo da gallo, perché sono vicino all'età biblica: "Gli anni della nostra vita sarebbero settanta, e ottanta per i più forti" (Sal 90, 10).
Dovrei mettermi a ridere di contentezza, perché sono oltre ogni ogni più ottimistica previsione. dovrei sudare freddo, perché ho ancora poco da rosicchiare. Invece non faccio né questo né quello, ma mi siedo come il pellegrino lungo il fiume, a contemplare l'acqua che scorre. E' uno scorrere lento e inesorabile, ma finalizzato e benefico. L'acqua va verso il mare, verso la pienezza, e le sue sponde sono tappezzate di vita, di erba sempre fresca, di alberi frondosi. così anche io sto andando verso il mare della luce e della pienezza della vita e spero, magari illudendomi, di avere aiutato qualche anima a trovare serenità, freschezza e gusto di vivere. Non solo per i misteri che ho impartito per professione, ma anche per quel poco che sono riuscito a dare come uomo.
Mi accorgo, con sorpresa, che ho superato perfino l'età di mio padre, che vedevo già in età o addirittura anziano. Ma al mio solco l'età di tante persone che sono riusciti a farsi un nome per una ragione o o l'altra, nel campo della letteratura, della scienza, della umanità e, perché no?, della santità. "Se il somaro non fa la coda prima dei trenta, non la fa più" dicevano una volta. E io cosa aspetto a mettere la testa a posto, a concludere il lavoro che Dio mi ha dato da fare, a finire il mio solco? Il filo della memoria mi porta a tante persone che non sono più con noi. Quando si ha più gente di là che non di qua, c'è da pensare. Mi vengono in mente tanti amici preti, compagni di battaglia, più sani di me, che sono morti più giovani. A riprova che, fino a che non è ora, non si va. Ogni tanto qualcuno mi spara una dalle solite sentenze non richieste e non bramate: "Dura più un tegame rotto che non uno nuovo!". E può essere vero. Però rimane sempre rotta, sempre incerta, sempre a rischio. E può vivere anche più a lungo di una buona, ma e ha un'altra qualità di vita. "C'è vivere, vivere alla grande e vivacchiare" diceva la Maria da Vuiche. La precarietà, il non poter programmare, il vivere giorno per giorno o ora per ora può essere evangelico ma non è sempre facile. Un'aquila a cui hanno tagliato le ali non è che muoia, ma non può volare. E la malattia, soprattutto una malattia prolungata, cronica, invalidante, ti toglie una piuma al giorno, fino a che rimani spiumato del tutto. E' vero che si può volare con le ali dell'anima e del desiderio, ma non è sempre facile e non è la stessa cosa.
Giunto a questo punto, dico che mi ritengo, tutto sommato, fortunato. Non ho avuta una grande briscola, ma sono riuscito a giocarla sufficientemente bene. Con una bicicletta rotta e con poco fiato, sono riuscito lo stesso a fare sufficientemente strada. Più di ciò che pensavo e più di tanta gente con la bicicletta da corsa. Soprattutto ho avuta la grazia, almeno per adesso, che il male fisico non si è tramutato in male morale e dunque ho ancora una raggio di luce. Non faccio progetti perché non posso permettermelo. Mi accontento di ripetere la preghiera del salmista: "Insegnaci a contare i nostri giorni, e così potremo arrivare alla sapienza del cuore" v. 12).