mercoledì 30 maggio 2012

22 La bellezza della bontà


22 La bellezza della bontà

Pagine come quelle del “buon pastore” non si possono archiviare velocemente, ma si devono sondare a fondo, come quando si cerca la vena dell’acqua di pozzo.
E rileggendole, ho notato che il greco, per dire “buono”, adopera la parola “bello”. Ovvero “il bello pastore”. Il vocabolario riporta più significati: bello, godibile, piacente, grazioso, splendido, magnifico, nobile, glorioso, carino, delicato. E buono. Dove bello e buono si richiamano e si completano e si incrociano, come quando in teologia ci parlavano di Dio e della sua unità, verità, bontà e bellezza. Bello perché buono; dall’ estetica all’etica.
Peraltro può un pastore non essere bello? E un mercenario e un ladro non essere brutti? Una madre, un figlio, un amico, un santo saranno sempre belli, anche se fisicamente non sono indici e se il tempo ha lasciato le sue ferite. Ma sono ferite gloriose e benedette, come quelle di Cristo risorto. Le ferite dell’ amore e del dolore, sono sempre belle.
I calli nelle mani di un padre, le rughe sul volto di una nonna, i capelli di una persona che si è sacrificata per noi saranno sempre più belli della pelle più liscia e della capigliatura più platinata di una persone che e ha pensato solo per sè. Questo se si vuole guardare in profondità, cosa che oggi si è portati a non fare. Perché impera la tirannia della bellezza esteriore, corporale, di facciata, che costa un patrimonio e non giova a nessuno.
Sento dire di donne e uomini che rischiano il portafoglio e la vita stessa per raddrizzare il naso, tirare le rughe, eliminare il grasso, gonfiare i pettorali, trapiantare i capelli fare sparire i peli. E si passa ore e ore nelle palestre, con la ginnastica, con le creme. E più si è preoccupati di salvare la bellezza esteriore e più si invecchia l’anima e si asciuga la vena dell' intelligenza, della fantasia. E il cuore piange.
Il vangelo ci dà una sua cura di bellezza quando parla degli occhi. dice che l'occhio è la luce dal corpo (Mt 6,22), lo specchio dell’anima, la finestra che l’anima e guarda il mondo e il mondo guarda l’anima. Io ho sempre misurato la bellezza di una persone dalla luce dei suoi occhi, che  illuminano tutto. Se dovessi dare un consiglio di estetica, direi di tenere belli e luminosi gli occhi. E questo non si può farlo dal di fuori ma dal di dentro, Partendo dall’anima.
Per cui, io consiglierei di estirpare prima i vizi e dopo i peli, di rinfrescare l’anima e la mente con la meditazione e la lettura e dopo la pelle con le creme, di tirare le rughe dell’anima e solo dopo quelle del volto. Che si potrebbero  benissimo lasciare. prima di tutto perché  è giusto che ogni età della vita abbia i suoi colori e poi perché uno che è contento dentro riesce a essere bello anche fuori.
Una bellezza che parte dalla bontà, non una bellezza superficiale, fredda, per nascondere un cuore freddo e vuoto. Le api vengono attratte dalla bellezza dei fiori per poter godere e aspirare la loro bontà. Così la bellezza esteriore va bene solo se è accompagnata o ci porta alla bellezza interiore. Che è quella che dura di più, anzi per sempre, e che ci piace di più.
Quanta gente bella che ho conosciuto nella mia vita! Di ogni età e di ogni condizione. Occhi che sapevano di cielo e cuori che comunicavano calore e vita. Quando si parla di una “casaccia” o di un “paesaccio”, non ci si riferisce all' estetica ma alla bontà. I bambini questo lo capiscono per istinto. Difatti, se tu gli fai un dispetto, non ti dicono “cattivo” ma “brutto”. perché la cattiveria è brutta. Come il peccato.

mercoledì 23 maggio 2012

21 Oh, che brutti tempi!


21 Oh, che brutti tempi!


La Chiesa ha una sua visione della storia e del tempo. Nessuna meraviglia che abbia anche una sua divisione e un suo calendario, che dovrebbe corrispondere non tanto al sole fisico ma al sole spirituale, a Cristo e al suo mistero di salvezza. Da qui il fatto che l’anno inizia con l’Avvento e finisce con la fine del Tempo ordinario. E per la fine dell’ anno liturgico la Chiesa prevede la lettura dei brani “escatologici” o “apocalittici”, cioè quelli che riguardano gli ultimi racconti dal tempo creato (i “novissims”) e  squarciano il velo sul mistero della fine. Che è  un mistero di dolore e di spavento, come è stato bello e splendente l’inizio. Peraltro si potrebbero adoperare paragoni ed espressioni differenti?
Il sovvertimento del cielo, con questo oscuramento e disastro cosmico, è accompagnato dal sovvertimento morale, dall’ oscuramento delle coscienze e dai disastri degli uomini. Insomma saranno tempi brutti, di grande tribolazione, i peggiori. Lo dice Daniele (12,1) e gli fa eco anche la Sibilla.
E dai tempi brutti che ci tocca di vivere, più di uno e di due parlano, spaventati, della fine del mondo. “Siamo arrivati, al punto che peggio di così non può andare!”.
Guardando e ascoltando, potrei anche essere d'accordo. Il dubbio mi viene quando penso a mia madre, che diceva la stessa cosa, e l’aveva sentita da mia nonna, che le aveva sentita di mia bisnonna.
Allora concludo che non esistono tempi belli e che la fine è iniziata da quando è iniziato il mondo. Perché la morte inizia nel medesimo giorno in cui si nasce. Il rifarsi a un tempo fortunato, sempre dietro di noi e mai davanti, può essere tanto una paura ad affrontare il tempo che abbiamo sotto mano, l’unico nostro, che una voglia di tornare nella pancia della madre, dove eravamo sicuri e protetti, ma non vivi di vita autentica. Difatti la natura ci ha partoriti dopo nove mesi, come si butta fuori dal letto il bambino pigro e dormiglione.
Ho parlato di tempi brutti. Ma anche questo è un termine relativo, perché l’uomo è pluri dimensionato. Se gli va bene da una parte, gli va male dall’ altra, come il tempo che, se piove in un posto, c'è il sole in un altro. così se è difficile per il cervello, può andare bene per lo stomaco e, se l’arte piange, ridono i giostrai e gli artisti di strada. Neanche la guerra non è per tutti un male. Difatti quelli che vendono bombe e casse da morto pregano che duri. Per dire che non esiste un tempo ideale. Se è male la miseria, non è meglio la troppa abbondanza; e se ci si affatica a camminare, non si è meno stanchi guidando l’ auto.
Stiamo solo attenti che i tempi brutti non siano un alibi per non fare niente e per rovinarli ancora di più. Perché noi siamo padri e figli del tempo, nel senso che ci crea e lo creiamo. Ma rimane sempre un spazio per la libertà e per la  responsabilità. Chi ha detto che in tempi di immoralità, superficialità, egoismo, omologazione, uno non può essere morale, profondo, disponibile, alternativo?
I cristiani non sono come le uova, che valgano di più proprio quando ce ne sono poche? Che grande occasione, allora, per gente buona e libera, di restare fedele a Dio e ai valori e di essere un segno di speranza in un mondo disperato e disperante, una stella che splende in un cielo tutto grigiastro!
Io non ci sarò a vedere un cielo senza sole e senza luna e senza stelle (Gl 2,10). Ma fino a che avrò attorno a me qualche anima buona che mi fa luce e mi segna la strade come le stelle la indicano ai marinai, nel mio cuore non morirà la speranza e non perderò il sonno e la serenità a causa degli incubi apocalittici.

mercoledì 16 maggio 2012

20 Incarnazione: mistero e regalo


20 Incarnazione: mistero e regalo

Tutto ciò che nasce è un mistero, cioè a dire un qualcosa di più profondo del puro dato anagrafico visibile. Chi riesce a capire a fondo e a spiegare il tempo, il modo, la preparazione la collocazione, l’importanza, il destino di un fiore, di una bestiolina, di un bambino? Perché nasce quello e non un altro? Perché nasce li e no in un altro posto? Perché nasce in quel momento e non un secolo prima o dopo, che avrebbe avuto un destino tutto diverso?
Nessuna meraviglia allora che il mistero rimanga, anzi venga maggiorato, quando si tratta di un bambino che dividerà la storia in prima e in dopo di lui e che sarà lui il centro e il giudice e il metro di misura della storia. Quello che, comparso nella umiltà della nostra carne mortale, è l’ immagine del Dio invisibile e possiede un nome al di sopra di ogni altro nome, tanto in cielo che in terra e sotto terra.
Si sa che i misteri vanno contemplati, come le stelle, e non spiegati, ma San Paolo ha cercato di dire qualcosa di grande nelle sue lettere. Basterebbe prendere in mano il prima capitolo agli Efesini e il secondo ai Filippesi, dove, per dare una idea del “salto” di Cristo dalla natura divina a quella umana, dice che “si è ridotto a niente”.
Io non sarei così fiscale. L’uomo non è proprio niente se è stato fatto “appena più piccolo degli angeli” e contornato “di gloria e di onore” (Sal 8,6). Lo so che la incarnazione è un regalo, ma l’amore fa questo e altro e anche noi non lo sentiamo come un peso. Peserebbe a non farlo.
Qualunque genitore, anche non cattolico, troverebbe normale “abbassarsi” al livello del figlio malato nel corpo o nell’anima, senza pretendere medaglie o meriti. per una sorta di istinto. Una volta mi era caduto un cagnolino in una vasca e la cagna ha tanto fatto fino a che è saltata dentro anche lei, per afferrarlo, anche se rischiavano di annegare entrambi. Non aveva ascoltato la ragione, che non possedeva, ma il cuore, che ne aveva tanto. Dunque l’incarnazione va vista in un contesto di amore e l’amore riesce a nobilitare tutto e a trasformare anche una “perdita” in un guadagno.
L’ abbassarsi di Dio può essere una perdita obiettiva ma sicuramente non. E qui sta il miracolo dell’ incarnazione: che non perde il primo e ci guadagna il secondo. Le cose materiali, quando passano da uno all’ altro, fanno diventare più povero quello che le dà e più ricco quello chele riceve, ma con le cose spirituali è diverso. Per questo dovremmo abituarci a scambiare meno materia e più spirito, meno cose e più anima.
Quando il grande si abbassa sul piccolo, lui non perde e ci guadagna quell’ altro. La stessa cosa accade quando un sano si abbassa sul malato e il sapiente sull’ ignorante e il santo sul peccatore. Questo succede, o deve succedere, in famiglia, a scuola, in chiesa, nella vita sociale e culturale, nei rapporti fra persone e popoli. Incarnazione come trasfusione e passaggio di amore e di spirito. Dopo può venire, e viene, anche il resto.
L’importante però è che il primo termine rimanga genuino. Cristo può salvarci solo se non rinuncia alla divinità. La Chiesa può aiutarci solo se resta santa, seria e contemplativa. Se il sapiente e il santo, per venire incontro all’ altro, rinunciano alla loro sapienza e santità, non abbiamo più ne incarnazione ne regalo, ma una tragedia spaventosa. Vi immaginate un maestro che, per mettersi a livello degli scolari, diventa più stupido e ignorante di loro?

mercoledì 9 maggio 2012

19 In fila, lungo il Giordano


19 In fila, lungo il Giordano

Mi ha sempre impressionato il vangelo del battesimo di Gesù, inizio ufficiale della sua “vita pubblica”. Non per il fatto che narri cose straordinarie ma proprio perché la sbrighi in maniera anche troppo veloce. Se si toglie la colomba, vista solo da Giovanni, e le parole di legittimazione e approvazione del Padre, che nessuno  ha udite, tutto si compie in una riga: Gesù giunge sulle rive del Giordano e si fa battezzare.
I teologi hanno consumato secoli e penne per dire che Cristo si fa battezzare solo pro forma, per dare il buon esempio, dal momento che lui è  l’unico che non ne ha bisogno. Sarebbe come se un prete mettesse i soldi nella borsa delle offerte o accendesse una candela. Non riesco a comprendere tutto questo sforzo per togliere Cristo dalla normalità tutte le volte che abbiamo la fortuna di averlo nostro compagno di ventura. Perché circondare di eccezioni l' Incarnazione, che è la cosa più splendida della nostra religione?
Cristo si fa battezzare per il fatto che è uomo. E come si è avvicinato alla lunga processione dell'umanità, così si accompagna alla lunga processione della miseria morale dell' umanità. Difatti Cristo, che non aveva conosciuto peccato, si è fatto peccato per noi (2 Cor 5,21). per una solidarietà concreta e non di facciata.
Cristo dunque aspetta, sulla sponda del Giordano, che giunga il suo turno. Essendo parente di Giovanni, non ci sarebbe stata nessuna meraviglia se avesse sbracciato per passare avanti o per richiamare le attenzioni del Battista. Invece è  il Battista che lo scopre, lo chiama e lo professa. Cosa significa questo? Che per ognuno di noi c'è il momento di entrare nella storia. Un tempo che non dipende da noi, ma dalla fila che c'è davanti. Non è il caso ne di accelerare ne di ritardare, ma di essere pronti nel nostro momento e nel nostro tempo, che è  quello giusto. Lasciamo stare dunque le nostalgie per un tempo che è già stato e l' illusione per un tempo che non è ancora venuto. Affrontiamo il presente, l’unico tempo veramente nostro.
Della fila che c'è lungo il fiume si vede solo qualcuno: quelli che sono in prima piano. Non si vedono quelli che sono già stati battezzati e neanche quelli che devono arrivare. Così, prendendo l’acqua del Giordano come esempio della vita (l’acqua è sempre un elemento vivo e unificante), dirò che la processione infinita degli uomini è visibile solo in piccola parte. Difatti sono una strage        quelli che sono stati già inghiottiti dal buio della morte, buio almeno per noi, e una strage quelli che non sono stati ancora illuminati dalla luce, la luce del nostro vivere. Ma la processione deve comprendere tutti, come la storia, come la grazia di Dio.
Cosa è che unisce questa processione? Prima di tutto la umanità e poi il condizionamento e limite del peccato e la possibilità della grazia e della salvezza. Una umanità di peccatori salvati o di salvati sempre a rischio di peccato.
Il vangelo dice che sopra di Cristo si è fermata la colomba dello spirito e fatta sentire la voce della benevolenza del padre. Come a dire che sopra di questo pezzo di umanità, che ha nelle sue mani la responsabilità del presente, è sceso lo Spirito di Dio e la sua paternità fatta di benevolenza. Non si vede la colomba e non si sente la voce, ma non sono fondamentali. Fondamentali sono lo Spirito e la paternità di Dio. E quelli non mancano. altrimenti come potrebbe andare avanti la storia?
Ogni dono rifinito e tutto il bene che c'è nel mondo viene dall'alto, dal padre della luce. Non è una fantasia del prete di Basagliapenta ma una affermazione convinta di un uomo sufficientemente con  i piedi per terra, San Giacomo (1,17).

mercoledì 2 maggio 2012

18 Il sentiero


18 Il sentiero

“è un lanternino per il mio piede la tua parola, un lume per il mio sentiero” (Sal 119,105). Anche il buon pastore ci conduce  “per i sentieri della giustizia” (23,3). Eppure i miei fedeli di Basagliapenta di ogni età, e tanto più quelli di Udine, non sanno cos'è un troi. Ma non sanno neanche cosa significhi se detto in italiano, “sentiero”, perché non hanno fatto l'esperienza del sentiero.
La modernità, con i suoi ritmi e con le sue esigenze sempre più ricattatrici, conosce solo la strada. Poco le stradine di campagna, tanto la strada “normale”, quella larga che si deve allargare sempre più, che passa attraverso i paesi e le città. Per non parlare delle autostrade, dove il primo comandamento è  quello di pigiare l’acceleratore e correre.
Invece in Carnia e nelle zone di montagna, per la loro struttura morfologica e per le esigenze dell' economia agricola, tutti sanno cos'è  un sentiero, la sua funzione, il suo valore, l’importanza di tenerlo sempre aperto e pulito dai rovi e dagli sterpi e la tragedia di perderlo, di andare fuori di sentiero.
Vediamo se possiamo capire l’importanza del sentiero biblico partendo dai nostri sentieri.
Il sentiero è  stretto, come la strada che conduce alla vita. “parecchio stretta è la porta che conduce alla vita; e pochi  sono quelli che le trovano” (Mt 7,26). Che ci sia più gente lungo l' autostrada che non per un sentiero di montagna non è una conseguenza del consumismo. E' un fatto “fisiologico” della storia degli uomini.
Lungo il sentiero si va a piedi e uno alla volta. Questo rende  l' idea della fatica dell' andare avanti e della solitudine esistenziale di ogni uomo. La vita non regala niente e ognuno deve trovarsi fuori la sua strada. Solo così può e deve aiutare gli altri.
Il sentiero serve per arrivare fino alla cima della montagna. E la montagna, nella Bibbia e nella vita, ha mille significati: la fatica del proseguire dell'arrivare in vetta, la necessità di distaccarsi dalla banalità e di guardare le cose dall' alto, nella loro globalità e relatività.
Il sentiero serve anche per arrivare a districarsi in un bosco. E la vita di oggi, così complessa e complicata, non è forse un grande bosco che si deve attraversare per arrivare nello spiazzo e nella luce della libertà?
Il sentiero non l' ho fatto io. Lo hanno tracciato quelli prima di me, spesso a forza di scivoloni e cadute. La vita è continuità. Io ho diritto di adoperare tutta la sapienza e l' esperienza di quelli prima di me. A patto che anche io tenga aperto il sentiero per quelli che a verranno dietro di me. Se gli avi non avessero lasciato segnata la loro esperienza, avremmo noi un punto di riferimento? Possiamo noi non lasciare ai figli e ai nipoti questo punto di riferimento, questo orientamento, questo segnale di sapienza e di vita?
Se si chiude il sentiero, tutto diventa selvaggio. Se si chiude la strada della sapienza e dei valori, tutto diventa più complicato e invivibile. E ogni generazione deve sarchiare, pulire, segnare il passaggio più sicuro e più corto per chi  viene dopo. Il sentiero è memoria, perché lo hanno aperto quelli prima di me; è presenza, perché lo battiamo anche noi cercando di tenerlo aperto; è  profezia, perché   permette alle nuove generazioni di affrontare con serenità e lucidità i loro garbugli. Per attraversare il bosco della vita e per arrivare sulla montagna di Dio.
Signore, mostrami i tuoi sentieri. Fammi diventare un sentiero.