04 Un
friulano in Benecija
La storia dei rapporti fra i responsabili della Chiesa
Udinese e la gente della Benecija non è dalle più esaltanti. I momenti più
difficili sono due. Il primo avviene sotto il fascismo, col picco del 1933,
quando i preti subiscono una autentica persecuzione perché sostengano una cultura che, per le concezioni
ignoranti e villane del regime, è inferiore e indegna della sacralità romana.
Il secondo momento inizia con la fine della guerra e ha la sua radice
ideologica nel confine fra il mondo occidentale, filo americano, e quello
orientale, filo sovietico. Per tanti papaveri democristiani, succeduti ai
fascisti ma infettati dallo stesso nazionalismo, parlare in sloveno significa
essere comunisti, titini e antipatriottici. I preti originari delle vallate
vanno sparendo per ragioni anagrafiche e vengono sostituiti dai friulani.
Preferibilmente da quelli meno sensibili ai diritti culturali sacrosanti di
quelle popolazioni.
In questo quadro desolante, può capitare che in
qualche paese le cose siano ancora più complicate per ragioni contingenti. E'
il caso di Liessa, dove una campagna denigratoria ha obbligato il vicario don
Arturo Blasutto, di Monteaperta di Taipana, di 42 anni, a ritirarsi per sempre
a casa sua, con grande dolore e disonore. In realtà, come conferma il
brigadiere di Clodig, "Se don Blasutto parlasse in italiano, non avrebbe
nessuna accusa". Bisogna mandare un prete che non abbia nessuna mania filo
slovena. Secondo una sua linea caratteristica, il vescovo Zaffonato preferisce
la pastorale della blitzkrieg: un salto e via. Con preti giovani, che fanno il
loro garzonato e poi tornano in Friuli. Per invogliarli e aiutare
economicamente, li farà tutti preti. Sotto mano ha un prete di 30 anni, pieno
di vita e di iniziative, rimasto a piedi perché è morto il prete. Così don
Azeglio Romanin, di Qualso, dopo avere servito con passione il prete di
Sedegliano mons. Gattesco, affronta l'avventura della Slavia, pensando, come
tutti, che si tratti di una parentesi. Invece il destino, o la provvidenza, ha
voluto che rimanga per 44 anni, dall' 8 di dicembre del 1961 al 5 di novembre
del 2005, quando un male che non perdona lo ruba alle sue comunità di Liessa e,
col tempo, di Topolò e di Cosizza. La sorpresa di don Azeglio non è solo nel
fatto che non tornerà più in Friuli, ma che riuscirà a radicarsi del tutto
nella sua nuova comunità, incarnandosi con cuore e anima, intelligenza e
volontà. Può starci che anche lui, giungendo con la sua 1100 in quel paese
fuori dal mondo, abbia pensato: "Dio, in che parte di mondo mi hanno
mandato!". invece quel mondo fuori dal mondo è diventato il suo mondo, la
terra della sua anima. E quella lingua che, come tutti, aveva deriso in
seminario, è divenuta un tesoro da tramandare ai figli. Lo ha lasciato per
testamento: "Non dimenticate le vostre radici, soprattutto i canti del
Avvento, di Natale, di Quaresima e della Pentecoste. Nelle loro strofe
raccontano e spiegano il mistero. Insegnateli anche alle generazioni di
domani". Si è ripetuto con lui il miracolo capitato al vescovo e martire
Arnulfo Romero, che è andato per convertire il popolo e invece è stato il
popolo a convertire lui. Nel senso di sovvertire la visione della vita e la pratica
pastorale.
Sulla sua attività nel circolo Recano, sul suo
dinamismo, sulla sua passione per la Chiesa e per l' uomo, sulla sua
sensibilità missionaria per la gente della Tanzania non è il caso di spendere
parole. Basta dire che, negli ultimi anni, ha adottato e sostenuto negli studi
oltre 40 giovani. Missionario del mondo intero abitando in un paesello fuori
dal mondo. Mi piacerebbe che la gente della Benecija, con la testimonianza di
questo prete onesto e contento, ci perdonasse in parte quel grande debito che
noi preti friulani abbiamo accumulato nei loro confronti.
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