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Lungo i fiumi della nostra storia
Mi
preparo a vivere la ricorrenza della nostra "festa nazionale"
del 3 di aprile meditando su quel salmo 137, "lungo i fiumi di
Babilonia – canto dell'esule", che è diventato l'icona più
pregnante e dolorosa della dispersione e della disperazione di un
popolo. Cosa sono quei fiumi o canali di Babilonia, dove i deportati
ebrei hanno appese le loro cetre?
Sono
i fiumi della Germania, dell'Ungheria, della Francia, della Svizzera,
dell'America settentrionale e meridionale, dell'Australia e di ogni
parte di mondo dove un tiranno non meno crudele di Nabucodonosor, la
povertà e la fame, ha spinto migliaia, milioni di friulani e di
altri poveri di ogni genere e cultura e provenienza. Un popolo seduto
o disteso e non in piedi, perché in casa degli altri si va solo a
servire e a prendere ordini e umiliazioni. Seduto a piangere. perché,
a un certo punto, non ti resta più niente, solo il ricordo di una
terra, di un cielo, di una patria, di una gente, di una lingua, di
una cultura, di una identità che tu hai dovuto abbandonare e che
speri di poterla riprendere per potere tornare a vivere. Perché dove
sei non vivi , ma solo tiri avanti. E la prove di questa vita ridotta
ai minimi, poco più di una speranza o una illusione, sono le cetre
appesa sui salici, perché il cuore non canta più e la bocca può
emettere solo un rantolo o un lamento soffocato.
"Se
dovessi dimenticarmi di te, Gerusalemme, s'inaridisca la mia mano
destra; la mia lingua si attacchi al palato, se di te non avessi più
memoria" (137, 5-6). Senza un contatto vitale con la tua terra,
con una terra e una identità, rimani come minorato e la lingua è
come attaccata, perché non riesce a dire quelle parole che partono
dal profondo della storia e dimostrano tutta la ricchezza di una
cultura. E oggi questo si avverte ancora di più in questa
dispersione collettiva, mondiale, globale, dove tutti si è spostati,
sradicati, depauperati del proprio patrimonio, della propria
identità, della propria personalità, che non si identifica più con
un territorio ben definito, ma solo con una appartenenza spirituale e
culturale precisa. Perché non si può vivere senza radici. E solo
con le radici ben salde ci si può espandere e prepararsi al
confronto positivo e confacente con altre culture e lingue.
Non
sono contro l' italiano o l' inglese. proprio io che sono un amante,
uno sfegatato delle lingue! Non sono contrario ad altre esperienze e
confronti culturali. Magari potessi girare anche io, incatenato a una
macchina! Dico solo che tutte le lingue e culture ed esperienze
devono aggiungersi, non sostituirsi alla nostra. In modo da diventare
più ricchi e non alienati.
Una
parola schietta sui canti. "Ma come canteremo adesso i canti
del Signore in una terra
straniera?" (v.. 4). I nostri canti sono prima di tutto per noi,
per sostentare la nostra anima. Non sono, non devono essere eseguiti
per accontentare la curiosità degli stranieri. Meno ancora sono da
cantare a pagamento, come gli indiani che si mettano le piume sulla
testa per essere fotografati dai turisti e dai curiosi. Una lingua e
una cultura non devono mai diventare folclore, carnevalata, evento
per le sagre, attrazione da circo. Lo stesso vale per la messa e le
liturgia in friulano. O diventa il pane quotidiano o è meglio che
muoia. Meglio morire con dignità che vivere per fare pietà. Se il
popolo friulano è giunto alla fine dei suoi giorni, ha tutto diritto
di chiudere la sua storia, come vanno sparendo tante piante e
animali. Io sono convinto che possa dire e dare ancora tanto. Ma deve
farlo con dignità, per sé prima che per gli altri, da protagonista
e non da comparsa.
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