sabato 22 marzo 2014

12 Lungo i fiumi della nostra storia

12 Lungo i fiumi della nostra storia
Mi preparo a vivere la ricorrenza della nostra "festa nazionale" del 3 di aprile meditando su quel salmo 137, "lungo i fiumi di Babilonia – canto dell'esule", che è diventato l'icona più pregnante e dolorosa della dispersione e della disperazione di un popolo. Cosa sono quei fiumi o canali di Babilonia, dove i deportati ebrei hanno appese le loro cetre?
Sono i fiumi della Germania, dell'Ungheria, della Francia, della Svizzera, dell'America settentrionale e meridionale, dell'Australia e di ogni parte di mondo dove un tiranno non meno crudele di Nabucodonosor, la povertà e la fame, ha spinto migliaia, milioni di friulani e di altri poveri di ogni genere e cultura e provenienza. Un popolo seduto o disteso e non in piedi, perché in casa degli altri si va solo a servire e a prendere ordini e umiliazioni. Seduto a piangere. perché, a un certo punto, non ti resta più niente, solo il ricordo di una terra, di un cielo, di una patria, di una gente, di una lingua, di una cultura, di una identità che tu hai dovuto abbandonare e che speri di poterla riprendere per potere tornare a vivere. Perché dove sei non vivi , ma solo tiri avanti. E la prove di questa vita ridotta ai minimi, poco più di una speranza o una illusione, sono le cetre appesa sui salici, perché il cuore non canta più e la bocca può emettere solo un rantolo o un lamento soffocato.
"Se dovessi dimenticarmi di te, Gerusalemme, s'inaridisca la mia mano destra; la mia lingua si attacchi al palato, se di te non avessi più memoria" (137, 5-6). Senza un contatto vitale con la tua terra, con una terra e una identità, rimani come minorato e la lingua è come attaccata, perché non riesce a dire quelle parole che partono dal profondo della storia e dimostrano tutta la ricchezza di una cultura. E oggi questo si avverte ancora di più in questa dispersione collettiva, mondiale, globale, dove tutti si è spostati, sradicati, depauperati del proprio patrimonio, della propria identità, della propria personalità, che non si identifica più con un territorio ben definito, ma solo con una appartenenza spirituale e culturale precisa. Perché non si può vivere senza radici. E solo con le radici ben salde ci si può espandere e prepararsi al confronto positivo e confacente con altre culture e lingue.
Non sono contro l' italiano o l' inglese. proprio io che sono un amante, uno sfegatato delle lingue! Non sono contrario ad altre esperienze e confronti culturali. Magari potessi girare anche io, incatenato a una macchina! Dico solo che tutte le lingue e culture ed esperienze devono aggiungersi, non sostituirsi alla nostra. In modo da diventare più ricchi e non alienati.
Una parola schietta sui canti. "Ma come canteremo adesso i canti del Signore in una terra straniera?" (v.. 4). I nostri canti sono prima di tutto per noi, per sostentare la nostra anima. Non sono, non devono essere eseguiti per accontentare la curiosità degli stranieri. Meno ancora sono da cantare a pagamento, come gli indiani che si mettano le piume sulla testa per essere fotografati dai turisti e dai curiosi. Una lingua e una cultura non devono mai diventare folclore, carnevalata, evento per le sagre, attrazione da circo. Lo stesso vale per la messa e le liturgia in friulano. O diventa il pane quotidiano o è meglio che muoia. Meglio morire con dignità che vivere per fare pietà. Se il popolo friulano è giunto alla fine dei suoi giorni, ha tutto diritto di chiudere la sua storia, come vanno sparendo tante piante e animali. Io sono convinto che possa dire e dare ancora tanto. Ma deve farlo con dignità, per sé prima che per gli altri, da protagonista e non da comparsa.

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