venerdì 16 dicembre 2011

34 A Bepi, di Ursula, schiacciato dal peso della vita


34 A Bepi, di Ursula, schiacciato dal peso della vita



Bepi, è volato già un mese da quando ti abbiamo trovato disteso con le braccia spalancate come un povero Cristo con la bottiglia dell’acido muriatico accanto.
A dire il vero la Chiesa non concedeva i funerali in simili casi, almeno per i poveri. Per un rispetto teorico della vita, uno che aveva vissuto da cane ed era morto da cane, doveva anche congedarsi da cane, condannato anche nella memoria collettiva. Ora la cosa è più giusta, perché si deve guardare a quanta disperazione ha quello che taglia il filo dei suoi giorni. E per non andare fuori strada, abbiamo letto, durante la messa, due esperienze tremende: il pezzo di Giacobbe 14, sull’uomo che vive pochi giorni, carico di tormenti, appassisce come un fiore e sfugge come l’ombra. E l’altro del Figlio di Dio che verso le tre, l’ora della tua morte, ha gridato a gran voce: ”Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27,46). Tu, sei dunque in buona compagnia e soprattutto in grande compagnia, perché tutti si percorre quel sentiero.
Tutti a questo mondo, si patisce e si hanno momenti di crisi. La tragedia nasce quando non si intravede una via di fuga, come un topolino in trappola. E allora tutto diventa un nemico: Dio, la religione, i familiari, i paesani. E difronte alla disperazione infinita, la strada più corta è quella del suicidio. Magari soffrendo da bestie.
In predica ho spiegato che i romani adoperavano la stessa parola, pietas, per indicare sia Dio che i morti. La pietà è il ricordo, il rispetto, il silenzio, l’adorazione del mistero. Se Dio è il mistero, è mistero anche il cuore dell’uomo. E ci si deve fermare dinnanzi alla porta. Per questo la gente non lo deve nominare invano, ma solo per ricordarlo, pensarlo, adorarlo. Con la testa bassa e la bocca chiusa.
La Bibbia dice, con grande sapienza, che l’uomo deve lasciare i genitori. Nel tuo caso, e non per colpa tua, è successo qualcosa di innaturale. Hai vissuto assieme a tua madre, voi due soli, per troppi anni e soprattutto anni di malattia, quando la convivenza si fa più problematica, in tanto tempo i rapporti s’invertono. Prima si diventa come marito e moglie e poi il figlio fa ciò che sua madre gli aveva fatto quand’era bambino: lavare, nutrire, vestire, vegliare, sopportare. E il figlio diviene madre e la madre diviene figlia. E quando muore la madre, magari a 98 anni, è come morisse un figlio, con tutte le conseguenze del caso. Non si può staccare una vite dal muro, senza strappare un po’ di intonaco.
Tu, sei sempre stato considerato pazzo. Ma nella tua follia non hai commesso danni e le porcate di tanta gente savia. E sei riuscito a essere splendido, anche troppo, con persone che erano considerate per bene e ti sfruttavano. Meglio matti senza colpa che criminali con colpa.
Ho avuto modo di vedere i giovani del paese, portare la bara in spalle. Lo hanno fatto volentieri. Ti abbiamo sepolto accanto a tua madre, come foste stati a casa, letto accanto a letto, fino all’altro giorno. Solo che ora il sonno sarà più lungo, anche se meno doloroso.
Spero che, con tanti fiori che hai regalato nei momenti di euforia, qualche donna si ricordi di portarli, a te e a Ursula, in segno d’affetto.
Il borgo è diventato più silenzioso, con le case che si chiudono. Il gatto viene a mangiare da me e non zoppica come prima. Mi sembra che la ferita alla zampina si è rimarginata. Speriamo che il tempo guarisca anche le ferite delle nostre anime.
Guardo spesso la cartolina di Villacch col tuo “Auf wier-dersehen”. Ti rispondo ogni giorno col nostro: “mandi”: “vivi a lungo”. “vivi in Dio”, “ti raccomando a Dio”.

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